donAmore.it

Gesù, un cuore in tempesta

22 Febbraio 2015

Parrocchia “Santa Maria Assunta”

Polignano a Mare, 31 ottobre 2012

Gesù, un cuore in tempesta

Questo quinto anno insieme segna lo spartiacque del nostro cammino pastorale: siamo giunti a metà percorso. Abbiamo camminato insieme quattro anni, ci siamo conosciuti abbastanza e tra una caduta e l’altra siamo arrivati fin qui. Occorre fare quello che gli economisti chiamano un “half year budget”, un bilancio di metà anno, o meglio di metà mandato e magari uno di previsione per i prossimi anni. Non possiamo certamente effettuare una verifica tra quello che abbiamo fatto e quello che non abbiamo fatto, tra le opere che abbiamo realizzato e quelle che sono rimaste incompiute: sarebbe troppo semplice e riduttivo. Anche perché, tutto sommato, abbiamo cercato di rimanere fedeli all’impianto pastorale che, con grande lungimiranza, don Vito Benedetti aveva già impostato con spirito di autentica profezia. Non abbiamo cambiato nulla, nemmeno gli orari delle Messe.

Su che cosa allora possiamo fare bilancio?

L’11 ottobre scorso Papa Benedetto XVI ha solennemente aperto L’ANNO DELLA FEDE, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II che terminerà nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il 24 novembre 2013. Nella data dell’11 ottobre, ricorrono anche i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, testo promulgato dal Beato Papa Giovanni Paolo II, allo scopo di illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede.

Facciamo, allora, un bilancio sulla fede della nostra comunità, anche se l’espressione detta così potrebbe dar adito a facili fraintendimenti. La fede si può misurare? La fede è quantificabile? E, seppur fosse tale, quale sarebbe lo strumento di misurazione?

Di certo l’Evangelo ci insegna che la fede è una realtà variabile. Gli apostoli chiedono a Gesù: «Signore aumenta la nostra fede!» (Lc 17,6). Questo significa che come aumenta, così diminuisce, ha un valore flessibile, non bloccato ad un indice standard di riferimento. La fede aumenta, la fede diminuisce. È un dono per tutti, ma non è uguale in tutti.

Addirittura l’Evangelo ci insegna che la fede ha delle dimensioni quantificabili.

«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sràdicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Una misura così infinitesimale (parliamo di 1-2 mm di diametro) avrebbe una causa così dirompente. E di qui comprendiamo che la dimensione non è direttamente proporzionale all’azione, cioè non è che serva una fede gigantesca per spostare le montagne. Non è la quantità che importa, ma il potere che il granello ha in sè di far esplodere la vita della pianta, il potenziale vitale.

         Da quando sono prete una delle richieste di perdono che faccio sempre al termine della giornata è per tutte le volte che ho fatto inavvertitamente allontanare qualcuno dalla la fede, e aggiungo anche “Signore ti chiedo perdono se oggi non sono riuscito ad aumentare la fede della Comunità che mi hai affidato”.

Partiamo di qui: in questi anni la nostra fede, la mia la vostra, è aumentata o diminuita? Già sarebbe una cosa buona se fosse rimasta tale e quale! Per un parroco organizzare il lavoro della catechesi, mettere su un campo scuola, organizzare un pellegrinaggio, portare a termine un lavoro di restauro, è un gioco da ragazzi e, tra l’atro, è anche molto gratificante. Personalmente non voglio concludere questi anni nella nostra parrocchia impegnandomi in una pastorale delle cose da fare, ma facendo una scelta fondamentale, che porto dentro fin dai tempi in cui ero educatore del Seminario Diocesano: “CRESCAMUS IN ILLO PER OMNIA” (Ef 4,11) “cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Lui”. Cerchiamo di vivere insieme un cammino di crescita nella fede.

         In quegli anni meravigliosi trascorsi nel Seminario Diocesano ricordo che ogni volta che mi si presentavano forti difficoltà da affrontare, fallimenti, conti che non tornavano mi chiudevo, da solo, nel salone grande del primo piano, in cui era appeso un quadretto a matita che raffigurava Gesù sulla barca degli apostoli avvolta dal mare in tempesta.

Quel disegno mi dava energia perché mi parlava di una realtà forte: “Gesù è con te in questa burrasca!”

35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,35-41).

CREDERSI

35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.

In quel giorno i discepoli avevano lavorato molto, di fatti è già sera; ma Gesù non si vuole fermare, vuole ancora continuare tanto che intende subito “passare all’altra riva”. Nel capitolo 5 al versetto 1 ci viene indicata la meta: il paese dei geraseni, allevatori di porci, terra dei pagani. La barca è, nella letteratura antica, l’immagine della comunità chiamata a non rimanere arenata alle sicurezze religiose del proprio credo, alla navigazione sotto costa dei territori dei credenti, ma ad affrontare il mare e dirigersi verso coloro che non credono! Gli apostoli che erano pescatori di esperienza, pronti ad affrontare ogni difficoltà, prendono Gesù sulla barca e salpano e l’evangelista aggiunge un particolare molto bello “così com’era”, cioè lo accolgono nella sua verità, senza modificarne la verità, senza storpiarne il contenuto, senza volerlo differente da quello che è, ma così com’è!

Oggi spesso capita il contrario e cioè di voler accogliere il Signore nella barca della nostra vita “così come lo vogliamo noi” e di presentarci al mondo “così come vorremmo essere”. Ci sono persone che pur di nascondere i propri limiti e le proprie insicurezze si manifestano per quello che non sono, mascherati di identità potenti, pseudo dominatrici, appiattendo ogni forma di relazione su se stessi. Sono quei tipi che, come si dice in gergo, “se la credono”, cercano ad ogni costo di vivere in maniera autoreferenziale e così facendo annullano ogni forma di reciprocità: esistono solo loro, le loro idee sono le migliori, le loro famiglie sono impeccabili, i loro figli sono il massimo, non c’è nessuno che li uguagli. Credono esclusivamente a quello che non sono e il loro credersi sfocia in una forma drastica di ateismo relazionale, perché il riflessivo della fede corrisponde all’annullamento della fiducia: se io mi credo, non credo in te. La fede, al contrario, presuppone un’apertura verso l’altro che mi fa correre il rischio di essere imperfetto, incompleto, bisognoso di un altro che non sono io. La preghiera, d’altronde, altro non è che una forma di dialogo, di richiesta che sottintende il mio “aver bisogno di te”. L’uomo o la donna che non chiedono mai non pregano mai: al massimo “vogliono essere pregati”. Ogni volta che chiediamo aiuto, ogni volta che confidiamo ad un altro i nostri problemi, ogni volta che condividiamo un’esperienza, ogni volta che facciamo un complimento ad una persona, ogni volta che chiediamo perdono, ogni volta che mandiamo un messaggio, ogni volta che chiamiamo qualcuno, stiamo vivendo una forma antropologica di preghiera, il livello umano della fede, quello che chiamiamo fiducia. Io, però, posso fidarmi di te solo quando ho fatto esperienza di te, solo quando ti ho dedicato tempo, spazio, solo quando ho frequentato i tuoi sentimenti. Noi cristiani, al contrario, diamo la fede come presupposto e la pensiamo come un dato di fatto che possediamo già. In questo caso non possiamo parlare di preghiera, ma di una ripetizione continua di formule. Credere non significa dire, ma stare con Gesù, trascorrere tempo con Lui fino a che io possa capire che posso fidarmi di Lui. Io non potrò mai chiedere aiuto ad una persona che mi è estranea, come non potrò mai pregare un Dio che non conosco.

Chi crede solo nelle proprie energie, chi crede di poter salvarsi con le proprie forze è solo un ateo o meglio è un ateo solo. La relazione è la prima via della fede: con se stessi, con l’altro, con il mondo creato. San Francesco ci ha insegnato la via di Dio attraverso la via della creazione. E quanti uomini arrivano a Dio attraverso le strade del mondo creato! Tu ammiri il mare e i suoi colori ti riportano alla perfezione di Dio e mentre un arcobaleno ti incanta, Dio ti rapisce con la sua bellezza.

         Gli apostoli, allora, prendono Gesù così com’è senza modificarlo nella sua identità, perché chi ha fiducia sa accogliere il tutto dell’altro, inclusa la possibilità che l’altro possa anche non fidarsi di te! Strano, ma è così. Gesù accoglie gli apostoli così come sono, ma gli apostoli non sempre si sono fidati di Lui (vedi Pietro, Giuda).

E qui si scatena la bufera di vento che nel linguaggio biblico è sempre simbolo del regno del male. A ciò bisogna aggiungere un particolare che rende l’impresa ancor più complicata: è notte e anche la notte è simbolo della tenebre del maligno. Proprio durante la notte, però, quando le forze della morte sembrano dominare incontrastate, Dio interviene con potenza per ridonare la vita, così come era accaduto in quella notte terribile della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù dell’Egitto.

“Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente scese dal cielo” (Sap 18,14-15).

Come ancor più potentemente accadde in quella notte in cui Gesù è risorto dal buio del sepolcro.

Spesso, infatti, noi percepiamo ancor di più la presenza di Dio nella notte della vita, nel buio esistenziale, nelle tenebre della ragionevolezza che in realtà ostacolano il nostro cammino di fede.

La secolarizzazione che si presenta come impostazione del mondo senza riferimento alla trascendenza invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio di fatto è assente, è buio.

I credenti vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità. La “morte di Dio” annunciata nei decenni passati da tanti intellettuali cede il posto ad uno sterile culto dell’individuo. In questo contesto culturale c’è il rischio di cadere in un’atrofia spirituale e in un vuoto del cuore, caratterizzati talvolta da forme surrogate di appartenenza religiosa e di vago spiritualismo”. (Benedetto XVI, “Imparare a credere”, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo- Milano 2012, 74-75)

CREDERE

 

38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Mentre la barca fuori controllo era in preda alla tempesta nel pieno della sua furia e le onde la sovrastavano di terrore, gli apostoli annegavano nel panico, le loro energie erano esaurite, la loro forza nei remi praticamente inutile. I loro muscoli stanno alla burrasca come il peso di un moscerino sta ad un pachiderma.

Il loro “credersi” esperti marinai si schianta con la feroce realtà che li sovrasta e, più che lupi di mare, sono diventati lupi in mezzo al mare.

Ci sono momenti nella vita in cui, vuoi o non vuoi, ti accorgi inesorabilmente che non c’è più nulla da fare, che ti devi arrendere alla verità, che devi accoglierla “così com’è” perché non hai più potere su di lei. Sono quegli attimi in cui sei costretto ad essere te stesso, forse come non lo sei stato mai, in cui ti riveli per quello che sei e basta. Magari hai scalato montagne altissime, affrontato oceani pericolosi, realizzato imprese da guinness dei primati, il tuo nome è scritto nella storia, ma in quello spazio di tempo (che già tempo è una parola troppo grossa!) non sei quello che hai compiuto, ma il compimento di quello che tu sei.

E Gesù dov’è? A poppa, è al luogo del timoniere. Ai comandi, dunque, non c’è nessuno. Dorme addirittura comodamente con il capo appoggiato su di un cuscino. Il contrasto è stridente. Fuori c’è il dramma di un manipolo di uomini ormai vicini agli ultimi istanti della loro esistenza, macerati da un uragano di emozioni, su di una imbarcazione scaraventata dalla rabbia dei flutti e Lui dorme tranquillo, come un bimbo addormentato e cullato dalle onde del mare. Tanto che corrono subito da Lui e lo svegliano. Non lo avevano svegliato i bombardamenti della tempesta, lo sveglia il grido di dolore degli uomini!

E il rimprovero sembra giustificato: “Maestro non ti importa che moriamo?”

Chissà quante volte anche noi abbiamo rimproverato Gesù con queste stesse parole: quando ci sentiamo soli nel mare in tempesta della difficoltà della vita, quando ci sentiamo inermi di fronte ai fallimenti, quando pensiamo di non farcela, quando proprio nei momenti più freddi in cui avremmo bisogno del calore dell’amicizia gli amici si allontanano da noi, quando nei momenti più bui pensiamo di contare su una persona che invece scompare nel buio! La cosa che più dilania, però, è pensare ad un Dio a cui non interesso, a cui non importa di me, della mia storia e che rimane addirittura impassibile di fronte alla mia stessa morte. Gesù dove sei nella mia malattia? Perché non mi rispondi? Perché non ti prendi cura di me? Perché non mi capisci? Perché non sono importante per te? E magari vorremmo gridare col Salmo 44,24 “Svegliati Signore perché dormi?”.

Il problema dell’ateismo oggi non è tanto centrato nella consapevolezza di un Dio poco interessante, ma di un Dio che non si interessa dell’uomo e che resta comodamente a dormire nel suo pantheon e che, per questo, non interviene nella storia. “Perché non hai fatto nulla per salvare mia madre?” “Perché proprio a me questa malattia?” “Perché non fai nulla per liberarmi da questa sofferenza?” “Perché abbiamo pregato tanto e tu non hai esaudito la nostra preghiera?” “Dov’eri quando ho avuto bisogno di te?”

In questa temperie di domande, Gesù ci rivela un Dio che dorme, che lascia le cose così come stanno e che non ha nulla da temere di fronte allo scatenarsi della violenza e del male.

Così scrive Sant’Agostino al punto 3 del suo discorso numero 63:

In tutte le altre vostre tentazioni attenetevi a ciò che ho detto riguardo all’accesso d’ira. Quando sorge una tentazione è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta. Sveglia Cristo: parli egli con te. Chi è mai costui, dal momento che anche il vento e le onde gli ubbidiscono?  Chi è costui al quale ubbidisce il mare? Suo è il mare e lo ha creato proprio lui Tutto è stato creato per mezzo di lui. Tu imita piuttosto i venti e il mare: ubbidisci al Creatore. Il mare dà ascolto al comando di Cristo e tu sei sordo? Il mare ascolta e il vento cessa, e tu ancora soffi? Come mai? Parlare, agire, macchinare inganni: che cos’altro è questo se non continuare a soffiare e non voler cedere all’ordine di Cristo? Cercate di non lasciarvi abbattere dalle onde nel turbamento del vostro cuore. Tuttavia, siccome siamo uomini, se il vento ci stimolasse [al male], se eccitasse le cattive passioni dell’anima nostra, non dobbiamo disperare. Svegliamo Cristo affinché possiamo fare la traversata del mare [della vita] nella calma e arrivare alla patria”.

Di fatti Gesù si sveglia e minaccia il mare e il vento: “Taci, calmati!”. Gesù manifesta il Dio onnipotente e creatore del cielo e della terra, quello stesso Dio che aveva sedato le acque del Mar Rosso e aveva permesso l’esodo del popolo di Israele.

Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero le onde del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed egli li condusse al porto sospirato!” (Sl 107(106),28-30).

E poi rimprovera gli apostoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»

Succede sempre così, le tempeste della vita ti fanno dimenticare le promesse di Dio.

Quando attraverserai queste acque io starò con te!” (Is 43,2)

Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)

Il rimprovero di Gesù è preciso: non dice “non avete fede” “non siete affatto credenti”, ma “non avete ancora fede” evidenziando che la fede è sempre dinamica, cammino in fieri. È sempre un percorso alla scoperta di un Dio-con-noi “Emmanuel”, che sta con noi, che vive con noi, che esiste, un Dio che c’è, non un’idea, un pensiero, l’immagine di un ragionamento, una parola scritta su un libro, un ideale trasmesso per tradizione. La fede non è un cammino alla ricerca di Dio, ma è il mio cammino insieme a Dio che scopro come persona vivente, che interagisce con me, che sta accanto a me, che non mi lascia mai solo anche nei tratti più dolorosi del percorso.

Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” (Rom 8,31)

Se Lui è con me, fuori può accadere di tutto, ma io resto sempre al sicuro, perché la sua presenza è onnipotente. “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23,4).

Se Gesù è con me non posso aver paura, perché la paura è la conseguenza della solitudine ed è l’attributo principale di chi “se la crede” quando la sua immagine comincia a scricchiolare. Il cristiano non è il supereroe impavido, che non teme il male del mondo, che ha coraggio da buttare, che non piange mai, un uomo di ferro. Al contrario, il cristiano è un bambino indifeso che smette di piangere e si tranquillizza solo quando sente il profumo della propria mamma, solo quando sente il calore delle sue braccia. È il mistero della vita, noi riposiamo solo quando ritorniamo nel grembo di chi ci ha generato. Ci sono bimbi che piangono come matti, che tutti cercano di tranquillizzare senza alcun effetto e che in un istante riacquistano la pace quando la mamma li riprende in braccio!

“Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia”. (Sal 131,2)

        È l’amore che ci ha generati alla vita, è l’amore il luogo della nostra pace. Ecco perché l’uomo per quanto possa essere sballottato dalle incomprensioni, dalle incertezze, desidera sempre tornare dalla persona che ama, perché, anche se questa l’ha tradito, anche se razionalmente ha perso la fiducia in lei, solo lei gli dona la pace. Ci sono persone che subiscono violenze dalle proprie mogli o dai propri mariti eppure non li mollano, perché, nonostante tutto, la pace è il frutto dell’amore non delle circostanze. Così quella frase terribile che leggiamo sulle tombe cambia colore in quest’ottica: “Riposa in pace”, cioè sei finalmente tornato in braccio all’amore che ti ha partorito, sei sereno per sempre.

Ma cos’è la fede? Fede è sapersi fidare-affidare, perdersi nella Parola del Maestro, scoprire attraverso di essa la strada da percorrere e quella da superare, da evitare. È trovare in essa la guida per affrontare le prove della vita, anche quando la notte oscura sembra interminabile. Fede è sapere che Dio è Padre, origine di ogni cosa, che ci ha tratto dal nulla solo per amore. Nessuno è venuto al mondo per un errore, non c’è stato nessuno sbaglio all’origine della nostra vita. Siamo frutto d’amore per questo nessuno deve sentirsi in balia di un destino capriccioso, del caso cieco. Fede è sapersi affidare alle mani di un tenero Padre che ci vuole bene e non ci abbandona mai, fede è fidarsi di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” 1 Tm 2,4” (G. MATINO, “Come Tommaso”, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo-MI 2012, 15-16)

La fede, allora, è un cammino di ricerca sincera, non di una nozione esterna a me comprensibile solo con la ragione, ma di una verità che mi appartiene, perché mi dà la vita, mi ama, mi regala la pace.

Sant’Agostino nel suo bellissimo libro delle “Confessioni”, proprio all’inizio, scrive:

Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te

“Tu ci hai creati per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. (Sant’Agostino, “Confessioni”, Lib. 1, 1. 1).

Quel donec (finché non) racchiude tutta la tensione del nostro itinerario di fede, che non ricerca la verità di un assioma (Dio esiste o non esiste?), ma la pace interiore che solo la verità può donare. Il cuore è spasmodico, è frenetico, scalpita, non ha pace, è non-quieto, nulla appaga il suo desiderio di pace (salute, lavoro, carriera, stipendio, proprietà, amicizie, danaro, investimenti, attività, vacanze, nuove tecnologie, ma anche volontariato, vita religiosa, elemosina, aiuto umanitario, accoglienza). Anche le realtà più significative e che riempiono la vita dell’uomo non lo appagano mai così da saziare la sua ricerca di pace. Per lo stesso fatto di essere creatura l’uomo non può non aspirare al suo Creatore e anche se non lo riconoscesse come tale, in ogni uomo permane il desidero di ulteriorità! Questo bisogno del “finché non” connota, anche se non in maniera conscia, ogni gesto della nostra vita quotidiana: anche i più semplici sono indirizzati verso un “oltre questo attimo”, che imposta l’esistenza umana come non-definitiva, ma come transito, tappa, via. In questo modo anche la sofferenza e la malattia non sono definitivi altrimenti la vita sarebbe definita dalla morte, ma sono parte di un itinerario aperto in compagnia di Dio, il “finché non” realizzato della nostra pace. Mi colpisce sempre molto un’inquietudine laica del mondo dei giovani e cioè la loro tendenza a superare gli orari limite della notte, ad attraversarla per arrivare insieme all’alba del nuovo giorno. Benché non sia sempre una realtà positiva, traduce l’energia di questi cuori a voler andare sempre avanti, a voler varcare i confini del buio, perché la serata “non può finire così!”, perché l’esistenza terrena non può finire così!

Il cuore inquieto è il cuore che, in fin dei conti, non si accontenta di niente che sia meno di Dio e, proprio così, diventa un cuore che ama. Ilo nostro cuore è inquieto verso Dio e rimane tale, anche se oggi con “narcotici molto efficaci”, si cerca di liberare l’uomo da questa inquietudine. Ma non soltanto noi esseri umani siamo inquieti in relazione a Dio. Il cuore di Dio è inquieto in relazione all’uomo. Dio attende noi. È in ricerca di noi. Anche Lui non è tranquillo finché non ci abbia trovato. Il cuore di Dio è inquieto e per questo si è incamminato verso di noi, verso Betlemme, verso il Calvario, da Gerusalemme alla Galilea e fino ai confini del mondo. Dio è inquieto verso di noi, è in ricerca di persone c he si lasciano contagiare dalla sua inquietudine, dalla sua passione per noi. Persone che portano in se la ricerca che è nel loro cuore e, al contempo, si lasciano toccare nel cuore, dalla ricerca di Dio verso di noi” (Benedetto XVI, op. cit., 31-32).

 

CREDERCI

 

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Da quel momento in poi la vita di quegli apostoli cambia, perché hanno sperimentato la salvezza. Ora sanno che questo non è un termine astratto, ma significa la presenza reale di Dio nel cammino della loro storia. Questa è stata un’esperienza trasformante per loro, perché loro conoscevano Dio, ma non il Dio-con-loro. Quanta gente ci chiede “Sei credente” e noi rispondiamo subito di sì, ma probabilmente non abbiamo mai fatto esperienza tangibile di Dio. E come se uno ti chiedesse: “ti piace giocare a pallone?” e tu gli rispondi sì, e non lo hai mai fatto. Essere cristiani stampati sulla carta, iscritti nel registro dei Battesimi conta poco. Il mondo ha bisogno di cristiani dinamici, inquieti, che corrono per annunciare a tutti che Gesù è veramente risorto e sta qui con me e io non sarò mai felice finché non riposerò in Lui. Non perché il mio nome è inserito nell’anagrafe della mia città, significa che io vivo a pieno la mia vita.

Bisogna crederci!

Noi, preti e laici, spesso ci riduciamo a fare i cristiani della Domenica, che vanno a Messa fino a che ci è possibile, che dicono di credere nello spazio di una celebrazione, che per questo pretendono di sposarsi in chiesa, ma che, alle prime avvisaglie di impedimenti o sofferenze, anziché dirigerci verso l’Oltre, cerchiamo altro.

Basta che arrivi l’estate per non frequentare più la Messa. Basta che vengano persone a pranzo per non andare a Messa. Preghiamo il Signore e portiamo al collo corni, cornetti, coccinelle e portafortuna vari… Ma di chi ci fidiamo: del metallo o della potenza di Dio?! Siamo cristiani della circostanza, del “finché non” mi devo impegnare, “finché non” mi toglie troppo tempo, “finché non” mi limita la vita!

Crederci significa riporre tutto nelle mani di Dio, ogni cosa di noi, tutto perché Lui è l’unico Signore della nostra vita, di tutta la nostra vita, non solo per un po’. Per le altre circostanze vivo come se Dio non esistesse.

Dico sempre che non posso limitarmi ad essere cristiano, devo essere CristiAMO, cioè un uomo impazzito di Dio altrimenti non potremo mai raccontare al mondo l’Evangelo, la buona notizia che Gesù è risorto per noi e la morte non fa più paura: in Lui solo il nostro cuore è tranquillo.

E come possiamo essere cristiani credibili nel nostro annuncio di una buona notizia, se la nostra vita non riesce a manifestare anche la bellezza del vivere? Nella lotta di Gesù contro ciò che è inumano, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio anche per un’esistenza umanamente bella, arricchita dalla gioia dell’amicizia, circondata dall’armonia della creazione e illuminata da uno sguardo di amore sulle realtà più concrete di ogni esistenza umana. […] La vita del cristiano che vuole annunciare Gesù sarà ad imitazione di quella del suo Signore, una vita felice, beata. Certo non in senso mondano, ma felice nel senso vero, profondo, perché la felicità è la risposta alla ricerca umana di senso. I grandi maestri della spiritualità cristiana hanno sempre ripetuto “ o il cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è!” E se è via della bellezza saprà attirare anche gli altri su quel cammino che conduce alla vita più forte della morte, saprà essere sequentia sancti Evangeli, pagina vivente del Vangelo per gli uomini e le donne del nostro tempo” (E. BIANCHI, “Nuovi stili di evangelizzazione”, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo-MI 2012, 86-87).

Nella sua introduzione alla giornata di preghiera e di riflessione 
convocata dal Papa 
per il Collegio cardinalizio, del 17 febbraio 2012, L’arcivescovo di New York, Mons. Timothy Michael Dolan, così scriveva al numero 5:

Quando ero seminarista al Collegio Nordamericano tutti gli studenti di teologia del primo anno di tutti gli atenei romani furono invitati a una messa in San Pietro celebrata dal prefetto della Congregazione per il Clero, il cardinale John Wright. 

Ci aspettavamo una omelia cerebrale. Ma lui iniziò chiedendoci: «Seminaristi, fate a me e alla Chiesa un favore: quando girate per le strade di Roma, sorridete!». 

Così, punto cinque: il missionario, l’evangelizzatore, deve essere una persona di gioia. 

«La gioia è il segno infallibile della presenza di Dio», afferma Leon Bloy. 

Quando sono diventato arcivescovo di New York un prete mi ha detto: «Faresti meglio a smetterla di sorridere quando giri per le strade di Manhattan o finirai per farti arrestare!». 

Un malato terminale di Aids alla casa Dono della Pace tenuta dalle missionarie della Carità, nell’arcidiocesi di Washington del cardinale Donald Wuerl, ha chiesto il battesimo. Quando il sacerdote gli ha chiesto una espressione di fede lui ha mormorato: «quello che so è che io sono infelice, e le suore invece sono molto felici anche quando le insulto e sputo loro addosso. Ieri finalmente ho chiesto loro il motivo della loro felicità. Esse hanno risposto: “Gesù”. Io voglio questo Gesù così posso essere felice anche io». Un autentico atto di fede, vero? 
La nuova evangelizzazione si compie con il sorriso, non con il volto accigliato. La missio ad gentes è fondamentalmente un sì a tutto ciò che di dignitoso, buono, vero, bello e nobile c’è nella persona umana. La Chiesa è fondamentalmente un “sì!”, non un “no!”.

Camminiamo insieme a Gesù sulla via della fede senza paure, senza timore perché, se Lui è con noi, possiamo attraversare le tempeste più dure della vita col sorriso del bimbo addormentato tra le braccia sicure della sua mamma.

 

Polignano a Mare, 31 ottobre 2012

Quinto anno dall’inizio del ministero nella Parrocchia

                                                                                                don Gaetano

Condividi sui social !!

    Comments are Disabled

    Twitter