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La parola: un’arma che SPERA

18 Maggio 2015

L’infermiere di Secondigliano si è arreso alla fine di una lunga trattativa e di un blitz di polizia. Murolo si è consegnato alla polizia dopo una lunga conversazione con l’operatore del 113, al quale aveva telefonato lui stesso: «Sono quello che sta facendo il macello a Miano», ha detto al poliziotto. L’agente ha cercato di trattenerlo al telefono. Sono seguite altre due telefonate di Murolo al 113, chiedendo dello stesso operatore. In totale, 40 minuti di conversazione con il poliziotto che lo ha convinto, parlando anche in dialetto napoletano, a deporre il fucile di caccia ed a consegnarsi dopo essersi sfilato la maglietta per mostrare che non era più armato.

Mi fa pensare tanto questo episodio, oltre al coraggio delle Forze dell’ordine e di tutti gli uomini di buona volontà che anche a prezzo della loro stessa vita hanno cercato di arginare il prolungarsi della strage, al potere immenso della parola. Quel poliziotto operatore del 113 è riuscito con le parole giuste, veicolate dal tono più appropriato, ad entrare in empatia profonda e a creare un legame di fiducia con un uomo disorientato e completamente accecato dalla sua rabbia. Una parola che, con dolcezza e delicatezza, entra in questa fortezza di confusione inespugnabile, e la abita pian piano. Una parola semplice, non urlata, non gridata. Una parola detta in vernacolo napoletano proprio per escludere un discorso freddo, cattedratico e distaccato, ma dai colori confidenziali di una madre che parla la lingua di casa sua.

Una parola che vale molto più di un’arma. Una parola che centra il bersaglio molto più di un mirino di precisione. Una parola cecchina. Una parola più potente di un fucile a pompa che colpisce non per la violenza, bensì per la carica di amore. Una parola che è un’arma da fuoco nel senso che penetrando brucia il cuore e cambia le intenzioni. Una parola che nella concitazione utilizza i proiettili non convenzionali del dialogo, del confronto, della simpatia, del ragionamento: munizioni che non ammazzano, ma reintegrano nella vita.

Più che polvere da SPARO, polvere da “SPERO”, che ridona una speranza nuova, un’altra possibilità.

Noi siamo tutti troppo abituati a respingere, ad utilizzare un linguaggio letale, PAROLE DI FUOCO.

Il Far West di Secondigliano lo viviamo tutti i giorni probabilmente nelle nostre case, sul posto di lavoro, nelle strade delle nostre città: il sangue non evidente, non è detto che non sia ugualmente versato. Una lingua può ammazzare più di mille cannoni.

Scrive Paulo Coelho nel suo romanzo “Il manoscritto ritrovato ad Accra”:

Le armi più tremende non sono la lancia o la catapulta che possono squarciare il corpo e distruggere le mura.

E’ la parola che demolisce una vita senza versare nemmeno una goccia di sangue e le cui ferite non si cicatrizzano mai”.

Parliamo, piuttosto, per dialogare, per rianimare, per ridare la vita, la gioia, la speranza. Parliamo parole dolci, vere, che sappiamo entrare in contatto profondo.

Parliamo con le armi delle parole dell’amore che sappiano penetrare nella profondità dell’essere come la Parola di Dio.

Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni SPADA A DOPPIO TAGLIO; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”.

(Ebrei 4,12)

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