Lettera alla Parrocchia: Miseri, odiosi o misericordiosi?
Miseri, odiosi o misericordiosi?
- Premessa
Iniziamo questo ottavo anno insieme. A che punto siamo? Dove ci troviamo? Come ci collochiamo all’interno del cammino ecclesiale?
- Si è appena concluso il Sinodo dei Vescovi (4-25 ottobre) sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” ed è già disponibile il testo della relazione finale. Molto bello, da leggere! Apre nuovi spazi di luce e misericordia sul volto insostituibile della famiglia.
- Il Giubileo straordinario della misericordia è stato indetto da papa Francesco per mezzo della bolla pontificia Misericordiae Vultus. Precedentemente annunciato dallo stesso pontefice il 13 marzo 2015, avrà inizio l’8 dicembre 2015 per concludersi il 20 novembre 2016. Il papa ha dichiarato che il giubileo, ricorrente nel cinquantesimo dalla fine del Concilio Vaticano II, sarà dedicato alla MISERICORDIA:
« Cari fratelli e sorelle, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della Misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, domenica di Nostro Signore Gesù Cristo, re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare a ogni persona il vangelo della Misericordia. »
- E, per concludere, siamo nel secondo anno del nostro progetto formativo “Strada facendo”, anno dedicato in maniera particolare all’ Eucaristia.
Date queste premesse, mi sembra chiaro che il cammino della nostra Comunità non possa esimersi dal rientrare nel grande solco tracciato dalla Chiesa universale che ci chiede di diventare sempre più simili al volto misericordioso del Padre. Ho pensato quindi di soffermarmi non tanto su di un trattato sulla misericordia, quanto su un brano del Vangelo che ci rivela, in modo semplice e preciso, la bellezza del volto della misericordia del Padre. Si tratta della parabola riportata dall’Evangelo di San Luca al capitolo 15, versetti 11-32, comunemente chiamata del “Figliol prodigo”, ma che andrebbe più opportunamente denominata Parabola del “Padre misericordioso”. Ascoltiamola.
- La parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32)
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
- Il figlio più piccolo va via
Cominciamo a riflettere sui motivi che spingono il figlio ad abbandonare la casa paterna. Tra questi possiamo sicuramente escludere la necessità di trovare un lavoro o quella di rimediare ad uno stato di ristrettezze economiche. Infatti, non solo il figlio maggiore lavora nella casa del padre, ma anche molti servi vi prestano la loro opera e per questo ricevono pane in abbondanza: segno questo di prosperità, di giustizia e di magnanimità del padre.
Allora perché decide di andarsene? Che cosa gli manca? Cos’è che non gli piace in casa sua? Ci aiutano a rispondere a queste domande alcuni elementi presenti nella risposta che il figlio maggiore darà al padre, nel momento in cui questi uscirà a pregarlo di partecipare anche lui alla festa: io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Da queste parole possiamo dedurre che la vita quotidiana nella casa del padre era caratterizzata dal servizio, dall’ubbidienza e dalla sobrietà, e questo per anni ed anni.
Non c’erano molte occasioni di festa in quella casa: bisognava lavorare sodo! Il padre, poi, poteva ordinare oggi una cosa, domani un’altra, dopodomani un’altra ancora. Evidentemente, un simile regime di vita poteva provocare, a lungo andare, una certa insofferenza e un certo disagio. Dobbiamo inoltre considerare le allettanti prospettive che il mondo esterno offriva. Così, il pensiero di non servire più, di non ubbidire più, il pensiero di potersi liberare da ogni vincolo e da ogni regola, la prospettiva di dare libero corso ai propri desideri e alle proprie passioni, di concedersi ogni esperienza e ogni fasto, formano nel figlio più giovane la convinzione che solo abbandonando la casa del padre avrebbe potuto realizzare pienamente la sua vita e trovare la vera felicità. È questo senso di soffocamento che induce a cercare libertà altre e fuori da ogni norma, a cercare “lontano” la propria felicità, finalmente svincolata da tutto e tutti.
La norma non è normale. Ci stanca, ci toglie il fiato. Chissà quante volte siamo scoppiati in un solenne: “UFFA non ce la faccio più !”. Tutte le frasi che cominciano con “uffa” tendono a portarci inevitabilmente fuori strada, perché ad ogni esplosione di rabbia corrisponde sempre una reazione non controllabile che potrebbe amaramente ritorcersi su di noi.
Ecco allora la decisione: andrò da mio padre e gli dirò “dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.
RICORDIAMOCI SEMPRE: NON C’E’ NULLA DI PIU’ DIABOLICO CHE DIVIDERE UN’EREDITA’!
Un’eredità è capace di dividere le famiglie, di annullare ogni forma di relazione tra fratelli, sorelle e genitori; annienta ogni affetto in nome del desiderio sfrenato della materia, del denaro, del possesso. Io dico sempre che l’uomo si attacca al terreno (in ogni senso) che -guarda caso- sarà poi la sua tomba: ma esiste qualcuno che desidererebbe ricevere in eredità una cassa da morto? Credo di no. Eppure un terreno in cui essere sepolti sì!
ATTENZIONE: l’amore terreno non coincide con l’amore del terreno! E quando il legame con il denaro supera quello del sangue, vuol dire che alla vita si preferisce la morte: perché col sangue si può vivere, con le monete no.
E il padre, sorprendentemente, senza dire una parola divise fra loro le sostanze. Eppure sapeva che molto probabilmente a quella richiesta sarebbero seguiti eventi poco piacevoli: allora perché la asseconda, perché si mostra così disponibile? Da notare che concede la sua parte di eredità anche al figlio maggiore, che non gliela aveva affatto chiesta. Che cosa si nasconde dietro questo comportamento? Una tale condotta manifesta due formidabili caratteristiche o esigenze di ogni autentico rapporto d’amore, esigenze che ,a seconda del comportamento delle persone coinvolte, lo renderanno la più grande delle beatitudini o il più doloroso dei drammi.
Una persona che ama veramente e correttamente un’altra persona si sente in obbligo di rispettare senza nessun limite la libertà della persona amata, anche se la persona amata utilizzerà questa libertà per sottrarsi all’amore di cui è oggetto. Ecco perché il padre si mostra così disponibile alla richiesta del figlio. Ma in un rapporto d’amore c’è anche un’altra fortissima esigenza: colui che ama si aspetta di essere liberamente riamato dalla persona amata. Ecco perché il padre concede la sua parte di eredità anche al figlio che non gliela aveva chiesta.
“Potremmo in conclusione riassumere il pensiero del padre con queste parole: fino ad oggi sono stato per voi un padre e voi siete stati per me dei figli: mi avete servito, ubbidito e onorato, e in un certo senso non potevate fare altrimenti. Ma da oggi in poi voglio che siate liberi di continuare ad amarmi oppure di sottrarvi al mio amore: do a voi quanto serve per vivere autonomamente e potete fare dei vostri beni l’uso che riterrete più opportuno. Continuare a rimanere nella mia casa deve diventare, da oggi in poi, il frutto di una vostra libera decisione.
Un’attitudine come questa comportava evidentemente dei RISCHI, rischi che il padre doveva correre se voleva elevare la qualità del suo rapporto d’amore con i figli; rischi che ha deciso di correre in vista dello splendore d’amore che ne sarebbe potuto derivare, splendore d’amore in cui il rapporto non sarebbe stato caratterizzato prevalentemente da una relazione padre – figlio, ma piuttosto da una relazione alla pari da amico ad amico. Queste considerazioni ci sono suggerite dalla risposta del padre al figlio maggiore quando dice: figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo. Il rimanere sempre insieme e la disponibilità a mettere in comune i propri beni mostrano l’intenzione del padre di instaurare con il figlio un rapporto di amicizia.
Ma entrambi i figli non comprendono questo progetto, e il loro peccato non è tanto quello di non comprendere, ma di non cercare di comprendere, di non aver fiducia nella saggezza e nella bontà del padre. Il loro errore è nel voler realizzare un’idea di felicità loro propria, idea che esclude la presenza del padre. Il più giovane infatti vuole cercare la felicità in un paese lontano, mentre il primogenito, quando pensa alla festa, la pensa con i suoi amici. Il padre li mette comunque nella condizione di scegliere liberamente se aderire o sottrarsi al suo amore. Il figlio maggiore sembra fare la scelta giusta e decide di rimanere; il più giovane, invece, senza sottoporre il suo progetto al consiglio del padre, decide di realizzare quanto da tempo abitava il suo cuore e, raccolte le sue, cose partì per un paese lontano”.
- Toccare il fondo
È l’inizio di un dramma, il dramma di un amore incompreso, ferito, rifiutato. Le sofferenze provocate da questo dramma riempiono in un primo tempo esclusivamente il cuore del padre. Per il figlio, invece, sembra avere inizio un tempo di libertà e di prospettive esaltanti: più egli si allontana, più sembra respirare a pieni polmoni; più lontano andrà, meglio sarà, perché meno correrà il rischio di incappare in eventuali controlli o richiami del padre. Partito per un paese lontano, vi giunge e qui può finalmente vivere la sua vita così come lui la intende.
Effettivamente, in un primo tempo, le cose sembrano andargli assai bene perché riesce a prendersi le sue soddisfazioni, è circondato da amici, tanti amici, e la vita gli riserva ogni giorno nuove esperienze e nuove emozioni. Non osservare più le regole, come faceva nella casa paterna, sembra renderlo più libero, meno represso, meno timoroso. La sua vita ed i suoi sogni sembrano pienamente realizzati: adesso sì che la sua vita ha senso, adesso sì che si sente felice!
Ma prima o poi tutti i nodi vengono al pettine, per tutti c’è una tempesta che viene a provare la solidità della felicità che uno si è costruito. Questa tempesta è caratterizzata da tre momenti. C’è un primo momento in cui il figlio scopre che le sue risorse non sono infinite e deve quindi constatare amaramente che il capitale investito per la costruzione della sua felicità si è ridotto a zero, ma non è tuttavia ridotta a zero la sua fame e sete di felicità. Come soddisfare allora questa esigenza, quando ha ormai sperperato tutte le sue sostanze?
Già a questo punto la sua situazione è decisamente critica; per di più il Signore introduce nel racconto un elemento che contribuisce ad aggravarla ulteriormente: la grande carestia che si abbatte su quel paese. E’ il secondo momento della tempesta. Se non ci fosse stata questa grande carestia, il figlio avrebbe potuto sperare nell’aiuto di qualche amico; ma ora che tutti sono nelle strettezze, anche questa possibilità gli è negata e la sua già precaria situazione si aggrava ancor di più.
Pensa allora che, dandosi da fare, potrebbe riuscire a risollevarsi e decide così di cercare lavoro. Quello che trova non è un gran che, anzi! Per uno che era abituato alla bella vita pascolare i porci doveva essere particolarmente umiliante! Ma il colmo della disgrazia e dell’umiliazione è che, nonostante il suo impegno e la sua buona volontà, non riesce a risolvere i suoi problemi, continua ad essere in estrema miseria e si rende drammaticamente conto che sta correndo il rischio di morire di fame. È a questo punto che gli è negato l’estremo tentativo di risolvere, almeno parzialmente, il suo problema in quanto avrebbe infatti voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. È così che il terzo momento della tempesta conduce l’infelice figlio a toccare il fondo, costringendolo a rendersi conto del disastro estremo a cui è giunta la sua esistenza.
Non si può rinascere se non si fa prima l’esperienza del “toccare il fondo”, ma il fondo del fondo. Cioè se non si arriva proprio nei meandri della nullità e si tocca la base del peccato, non si possono puntare i piedi per darsi la spinta e ritornare in superficie. Anche se mancassero solo 10 cm, l’esperienza della risalita non si verificherebbe mai. Ecco perché il padre non insiste, non tenta inutilmente di convincere il figlio. Gli concede lo spazio giusto per cadere nel baratro esistenziale del suo errore. Sa che non si può “trascinare” nessuno verso la verità, non lo si può strattonare sulla via del bene. Il cammino verso la risurrezione passa sempre attraverso la sofferenza e la morte.
Il padre non gli chiude le porte con il chiavistello della rabbia. Le lascia aperte. E rimane alla finestra. In attesa.
Non dice al figlio: ”Vattene, con me hai chiuso !” Gli dice “Vai perché con me ti puoi aprire sempre”. Questa relazione misericordiosa è importantissima.
MAI CACCIARE NESSUNO! MA AD OGNUNO LASCIARE SEMPRE UNO SPIRAGLIO APERTO DI SPERANZA.
Perché da quella fessura fuoriesce sempre un raggio di luce che, a mo’ di faro, indica sempre la rotta del ritorno a casa. E il faro affascina, prima o poi attira, invita al rientro.
Quel padre, che come ogni padre aveva sempre pensato per il proprio figlio “Farò di tutto per te”, ora lascia cadere l’accento per diventare silenzioso fascio luminoso.
Lui sta lì e aspetta, con la porta aperta; con il rischio di ammalarsi, ma non la chiude.
- Rientrare in se stessi
εἰς ἑαυτὸν δὲ ἐλθὼν: letteralmente “In se stesso poi essendo tornato”. Il primo vero cammino di ritorno è il rientro in se stesso, il ritorno a sé. Quel “toccare il fondo” provoca una lucida autocoscienza che non è già conversione, ma la consapevolezza chiara che si è sbagliata la strada. Come quando, per fare un esempio banale, tu ti ostini per caparbietà e orgoglio a continuare in quella direzione che pensi essere giusta e non vuoi dare a vedere che possa essere il contrario. Gli altri possono darti migliaia di consigli, tu vai dritto imperterrito! Ma quando giungi al muretto, quando la strada finisce nel baratro, inevitabilmente ti autoconvinci che devi fare inversione di marcia. Questa autocoscienza è il primo contatto con la situazione del sè reale. Fino ad allora, la soglia della coscienza era abbassata e tutto ti sembrava giusto, anche la morte. Ora tocchi la tua realtà, le puoi dare un nome, ne puoi sentire la puzza, ne puoi assaggiare la schifezza, insomma sai cos’hai!
Il primo passo verso il ritorno è verso l’autoconoscenza, il mettersi di fronte alla verità del proprio sé per capirsi, comprendersi e conoscersi. È come un lento risveglio dopo il lungo sonno della incoscienza.
Questo ragazzo, allora, riacquista il suo baricentro, punta i piedi dal basso e si dà la spinta propulsiva per risalire a galla.
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Così egli inizia il cammino di ritorno verso la casa del padre. Conviene inoltre notare come il motivo che lo spinge ad intraprendere questo cammino sia costituito, prima di tutto, dall’urgente necessità di sfuggire a una sicura morte per fame; quindi dalla necessità di riparare le offese fatte all’amore paterno. Ma questo non importa. Non importa se il ritorno sia spinto dalla fame o dall’affetto o forse dalla fame di affetto. Importa che si ritorni, in qualunque modo.
Potremmo immaginarlo lungo il percorso intento a riflettere sia sulle esperienze passate che su quelle che lo attendono. Era partito pieno di belle speranze, sicuro di sé, convinto di sapere cosa bisognava fare per dare gusto e splendore alla sua vita; era partito rinunciando all’amore del padre suo, convinto di riuscire a cavarsela da solo: ed ora doveva constatare ed ammettere che aveva sbagliato tutto. Tutti i suoi sogni si erano dimostrati vani, tutti i suoi progetti erano stati ridotti in frantumi: sue uniche ricchezze erano rimaste la miseria, il fallimento, l’umiliazione.
Ed ora che incerto e timoroso si avviava a consegnarsi alla giustizia di suo padre, cosa sarebbe successo? Cosa poteva sperare per il resto dei suoi giorni? Il padre suo come l’avrebbe accolto dopo che lui aveva sperperato tutte le sue sostanze, ma soprattutto dopo che aveva rinunciato al suo amore? Avrebbe potuto ritenersi fortunato se suo padre si fosse dimostrato disposto a trattarlo come uno dei suoi servi.
- Cinque verbi
Nel frattempo, anche se sporco, dimagrito e stanco, la sua perseveranza lo ha condotto in vista della casa paterna. Accadono a questo punto una serie di fatti sorprendenti, che manderanno ancora una volta in frantumi tutte le costruzioni mentali del povero viandante, il quale, dopo quanto gli era capitato e dopo quanto gli capiterà, rinuncerà forse per sempre ai suoi progetti e a dare indicazioni al padre sul come dovrebbe comportarsi.
Quando era ancora lontano il padre LO VIDE, SI COMMOSSE PROFONDAMENTE, GLI CORSE INCONTRO, GLI SI GETTÒ AL COLLO E LO BACIÒ
Basterebbero questi 5 verbi a descrivere l’irruente misericordia del padre che, appena scorge il figlio da lontano, NON CAPISCE PIU’ NIENTE!
ἐσπλαγχνίσθη (che bello questo verbo! ) : “si commosse nelle sue profondità”. Questo verbo ha una radice che richiama le interiora ta σπλαγχνa, le viscere, perché la misericordia altro non è che il fremito delle viscere che un padre o una madre provano, anche a distanza, nei confronti dei propri figli. Una vibrazione interiore che va aldilà della semplice empatia, un coinvolgimento nel profondo, un amore viscerale che non si può spiegare scientificamente, ma solo provare.
E uno dei vocaboli ebraici che definisce la misericordia di Dio è proprio il termine rachamim, plurale della radice “rechem”, che significa appunto il “grembo materno”.
La misericordia è la eco viscerale dell’amore, la risonanza interiore del legame che unisce inscindibilmente i cuori, il riverbero addominale della passione smisurata di due vite che suonano una sola.
δραμὼν: “essendo corso”. Quel Padre corre perché freme d’ansia per il figlio: quel figlio che è corso lontano da lui ora è rincorso dall’amore paterno. “Quando l’uomo smette di fuggire, si accorge che colui dal quale scappa per paura, gli corre dietro, perché gli vuole bene. È stata lunga la corsa di Dio verso l’uomo. E non finirà fino a quando non avrà raggiunto l’ultimo” (Silvano Fausti). Questa scena mi riporta alla mente il piazzale delle ferrovie o gli “arrivi” degli aeroporti: appena si aprono le porte, appena spunta l’amore, in quello stesso istante parte la rincorsa dai blocchi di partenza, perché il desiderio dell’altro è più forte della decenza del luogo pubblico e la voglia di toccarlo supera ogni paura e vergogna. È qui che l’uomo si scopre atleta per passione.
ἐπέπεσεν ἐπὶ τὸν τράχηλον αὐτοῦ: letteralmente “cadde sopra il collo di lui”. Non c’è verbo più bello che indichi questo passivo di passione: si lascia cadere, vinto dall’amore, sul collo del figlio, il luogo del respiro, della vita, della intimità; si abbandona a lui sfinito dalla passione.
καὶ κατεφίλησεν αὐτόν: e lo baciò. È il contatto d’amore. Il bacio è latore di tutto l’amore contenuto dentro il cuore, trasporta la passione interiore, comunica il respiro della vita: è il canale che veicola lo spirito interiore, trasfondendolo nello spirito dell’altro attraverso le labbra dell’anima.
“Ad un certo punto quel figlio scorge qualcuno che corre verso di lui: dai lineamenti sembra addirittura suo padre; gli viene tuttavia da pensare: sarà un servo che viene a dirmi: “tuo padre è molto adirato, è bene che non ti presenti subito da lui”. Quando si accorge invece che colui che corre è proprio suo padre, gli vengono le palpitazioni al cuore e si dice: sicuramente viene a punirmi, a caricarmi di botte per tutti i dispiaceri che gli ho dato. Però la sua sorpresa è grande quando vede che il padre gli si getta al collo e lo bacia. Un simile comportamento proprio non se lo aspettava! Pensa allora che il padre forse non ha capito bene e, appena si sente libero dalla sua stretta, prova a spiegargli lui come stanno le cose e gli dice: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Vorrebbe ancora suggerirgli quale trattamento gli dovrebbe essere riservato, ma il padre non gli lascia finire la frase preparata da tempo e ordina: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso e ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa.”
A questo punto, sorpreso e travolto dalle esuberanti iniziative del padre, cede le armi, entra in un profondo silenzio e, pieno di confusione, lascia fare. E giusto in questo momento incomincia finalmente a conoscere chi è veramente il padre suo, si rende conto di quale amore ha trascurato e offeso e il suo peccato gli appare ancora più grande. Si vede beneficiato da una misericordia che non merita, eppure questa misericordia è lì che sta guarendo le sue ferite e si prepara a saziare la sua fame in modo straordinario, in quel clima di festa che lui aveva cercato invano lontano dalla casa paterna. La giustizia alla quale era venuto a consegnarsi la vede trasformarsi in misericordia; l’amore che aveva offeso gli è nuovamente offerto: anzi, mai come in questo momento, gli si manifesta in tutta la sua delicatezza e in tutto il suo splendore.
Conviene inoltre osservare come le operazioni per rendere presentabile il figlio ritrovato vengono eseguite tutte all’esterno della casa, ad una certa distanza dalla stessa. Dice infatti il padre che gli era corso incontro mentre era ancora lontano: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo… La cosa è un po’ strana, nel senso che non è molto comodo spogliare, lavare e rivestire qualcuno lungo una strada. Siamo allora invitati a cercare gli insegnamenti nascosti dietro tali circostanze.
Potremmo vedervi un segno della delicatezza del padre, il quale non vuole che suo figlio entri in casa avendo l’aspetto di uno straccione e di un mendicante, ma vuole vederlo entrare rivestito della ricchezza e della dignità di figlio suo. Evidentemente questa operazione comportava diverse fasi. Bisognava prima di tutto spogliarlo dell’abito logoro e impolverato che molto probabilmente aveva acquistato in quel paese lontano; non conveniva poi fargli indossare l’abito bello, proveniente dalla casa del padre, senza prima averlo lavato e profumato. Dopo aver ricevuto l’anello ed indossato un paio di sandali nuovi, ecco che poteva finalmente procedere speditamente e dignitosamente verso casa e farvi il suo ingresso, accolto da musiche e danze, come uno che ritorna dopo aver compiuto una grande impresa.
- Il paradosso della misericordia
C’è in tutto questo qualche cosa di paradossale e di sconvolgente, talmente paradossale e sconvolgente che il figlio maggiore, di ritorno dai campi, ne rimane scandalizzato e protesta: non è giusto !!!. Non è giusto che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute sia trattato in questo modo. Non è giusto che io, che ti ho sempre servito fedelmente, non abbia avuto mai nemmeno un capretto per far festa con i miei amici, se è per i servizi che ti ha reso questo disgraziato che bisogna far festa, mi dispiace, ma io alla festa non ci vengo.
Siamo qui di fronte ad un nuovo paradosso, e il paradosso è questo: quando l’amore misericordioso del padre esce allo scoperto e manifesta tutta la sua tenerezza, produce strani effetti, viene accolto dall’uno e respinto dall’altro. Le manifestazioni d’amore sono pericolose: possono essere fonte di consolazione o generare crisi di rigetto. E la cosa sorprendente è che colui che aveva fatto la scelta giusta, che era rimasto nella casa del padre, che lo aveva servito per anni ed anni, lo ritroviamo alla fine con un cuore duro come la pietra, incapace di vibrare in sintonia con il cuore del padre e impossibilitato per questi motivi a prendere parte alla festa.
- Miseri, odiosi o misericordiosi?
Non dimentichiamo che la misericordia è una delle più alte caratteristiche di Dio. Quando sul Sinai Egli si rivela a Mosè, si manifesta con il nome di “misericordioso”:
“5Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. 6Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, 7che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”.
La misericordia è il nome proprio di Dio. E se siamo figli suoi, non possiamo non essere i figli della misericordia nella speranza che anche per noi si realizzi la beatitudine:
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7). L’unica delle beatitudini che ha come ricompensa se stessa. L’amore non può essere ricompensato con altro, se non con se stesso, si appaga solo in se stesso, si autoalimenta nel darsi e riceversi.
Al termine di questo breve percorso, allora, possiamo tentare di delineare un volto misericordioso della nostra Comunità parrocchiale:
Una parrocchia è misericordiosa quando sa ascoltare.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa chiedere perdono
Una parrocchia è misericordiosa quando valorizza la libertà di espressione.
Una parrocchia è misericordiosa quando rinuncia alle proprie prerogative sugli altri.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa accogliere il pensiero del diverso.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa attendere con pazienza la crescita dell’altro.
Una parrocchia è misericordiosa quando non condanna e non giudica alcuno.
Una parrocchia è misericordiosa quando non parla male degli altri
Una parrocchia è misericordiosa quando sa liberare dallo scrupolo della inferiorità.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa collaborare con le differenze.
Una parrocchia è misericordiosa quando rientra in se stessa.
Una parrocchia è misericordiosa quando rialza il telefono
Una parrocchia è misericordiosa quando non giudica chi se ne va via.
Una parrocchia è misericordiosa quando lascia sempre una porta aperta.
Una parrocchia è misericordiosa quando accoglie tutti anche chi non crede.
Una parrocchia è misericordiosa quando offre ospitalità al povero anche di pensiero.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa perdonare e dimenticare le offese ricevute.
Una parrocchia è misericordiosa quando non lancia invettive sui social per offendere l’altro
Una parrocchia è misericordiosa quando studia e lavora bene
Una parrocchia è misericordiosa quando è produttrice di pace e cerca di realizzarla
Una parrocchia è misericordiosa quando sa creare alleanze educative.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa tornare sulla strada di Dio.
Una parrocchia è misericordiosa quando sa cambiare idea, strada, percorso.
Una parrocchia è misericordiosa quando si lascia confondere dalla infinita e paradossale misericordia del Padre.
Allora, coraggio! “Strada facendo”, continuiamo a fare strada insieme verso il Padre, che ci ama sempre, senza se e senza ma, e mostriamo al mondo il volto bello della nostra Comunità, sempre con il sorriso di chi sa di poter perdere tutto, tranne l’amore viscerale del Padre. E che cosa si potrebbe desiderare di più?
don Gaetano
Polignano a Mare, 31 ottobre 2015
Ottavo anno dall’inizio del ministero nella Parrocchia
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