L’Eucaristia: Farmaco di immortalità
Giovedì Santo
Messa in Coena Domini
18 aprile 2019
Lavanda dei piedi ai medici ed operatori sanitari
“Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.”
Nella consapevolezza di essere giunto alla fine della sua vita, Gesù amò i suoi εἰς τέλος, fino al confine, cioè fino ad ogni limite possibile. Come a dire: Gesù li amò senza limiti, a partire dal limite della sua esistenza. Perché l’amore è diffusivo di suo, solo entro i limiti della sua portata che si dilata esclusivamente attraverso l’esperienza del dolore.
Un amore non sofferto, muore.
Quando ero in seminario lessi un libricino di Henri Nouwen, che si chiamava “Il Guaritore ferito”. In un passo, a pagina 76, riportava così:
“Il Sacerdote è chiamato ad essere il guaritore ferito, colui che deve curare le ferite proprie, ma che deve essere preparato nello stesso tempo, a guarire le ferite altrui”.
Le ferite che portiamo impresse nella nostra vita non sono solo limitazioni delle nostre possibilità, handicap che sottraggono nuove opportunità. In questa visione negativa non resterebbe che piangere sulle nostre piaghe e attendere con pazienza il consumersi del residuo della nostra storia. Le ferite sono un’occasione per poter dialogare con l’altro; sono la dilatazione delle finestre con cui dialoghiamo con il mondo esterno; sono i lemmi in più del nostro vocabolario non verbale; sono le feritoie allargate attraverso cui interagiamo con gli altri.
Nel suo ultimo libro “Se ne ride chi abita i cieli. L’abate e il manager: lezioni di leadership fra le mura di un monastero”, a pagina 164, Giulio Dellavite riporta il dialogo tra i due protagonisti.
“Stavo per citarle un verso di Anthem, in cui si dice che «c’è una crepa in ogni cosa, ed è così che entra la luce».
Proprio quello che volevo dire: Le ferite cicatrizzate diventano “feritoie” di luce. Infatti più che CHI SEI? o DA DOVE VIENI?, per conoscere una persona le chiederei: ”Quali ferite ti hanno reso la persona che sei?”
La sola espressione “posso comprenderti”, significa che non ho bisogno di traduzioni né tantomeno di interpreti, perché ho imparato la lingua del dolore sulla mia pelle e la so a memoria, anzi la so a palpitazioni.
Il poeta romantico francese Alfred de Musset (1810-1857) nella sua poesia “La notte d’ottobre” (La nuit d’octobre, 1837), composta nella sua malattia, scrive:
“L’uomo è un apprendista, il dolore il suo maestro: nessuno conosce se stesso finché non ha sofferto”
È questo il tavolo di lavoro sul quale accolgo la mia personalità ferita e la trasformo in identità condivisa. L’orgoglio è la pretesa assoluta di chi decide di chiudersi nei propri inutili dolori senza lasciar spazio all’umiltà dell’esperienza che si espande ogni qual volta decido di tramutare il limite in opportunità per gli altri.
L’Epitimio alla favola di Esopo, Il cane e il cuoco, è assioma programmatico
Παθήματα μαθήματα (Pathémata Mathémata)
“I dolori [sono] insegnamenti”
Dai dolori impariamo e nel dolore veniamo formati per formare.
È la matematica della passione in cui non vale la legge del calcolo delle probabilità di successo ma il conto reale del valore aggiunto della esperienza, alla sottrazione della sofferenza. Perché il dolore è inversamente proporzionale alla passione: tanto più la sofferenza ti toglie, tanto più la passione ti insegna.
Scrive Paolo Crepet nel suo ultimo libro, “Passione”:
“Mio padre è stato il mio esempio di passione. […] lui mi ha insegnato il senso della passione. Ne sono rimasta marchiata come da un tatuaggio, da una cicatrice. La passione è la forza che tiene proprio quando tutto si scardina e si scioglie. Vince quando tutto fallisce. È l’ultima difesa a cadere, anzi non cede mai Non avevamo molto tempo e lo sapevamo. NON AVEVAMO MOLTO TEMPO E LO SAPEVAMO. Come se la vita, esaurendosi, avesse preso a correre ancora più veloce e l’ansia ci avesse contagiati. L’ansia di vivere, di non lasciare nulla da parte. L’ansia di vivere quel poco, quel tanto”
(Paolo Crepet, “Passione”, Mondadori, 2018 pp. 118-119)
Se è così, allora tu non sei uno sterile prescrittore di farmaci, un consigliere di astratti percorsi di guarigione, tu sei la terapia.
Gesù non ha mai dato indicazioni su quali medicine assumere per liberarsi dalla malattia. Gesù ha guarito con il farmaco di se stesso, con il suo corpo.
Come riporta la Prima Lettera di Pietro (1Pt 2,24)
“Egli portò i nostri peccati nel suo corpo
sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato,
vivessimo per la giustizia;
dalle sue feritesiete stati guariti”.
Siamo stati guariti non dal suo potere, ma dalla debolezza delle sue ferite (tra l’altro il termine greco μώλωψ significa proprio lividi a sangue, lacerazioni).
Anzi potremmo dire che ogni azione compiuta da Gesù è un’azione taumaturgica. E quando Gesù guarisce non lo fa per manifestare agli altri i suoi super poteri o semplicemente per esercitare l’arte del distributore di miracoli a basso prezzo o per dimostrare la sua innata potenza. Sembra strano, ma il suo scopo primario non è guarire, ma “prendersi cura” perché tutti possano rendersi conto con evidenza della presenza viva ed operante nel corpo della storia.
In un passo molto significativo degli “Atti del simposio 2004. Caring in the terminal illness: communicating and accompanying through the dying experience”, si dice:
“La sfida è tra due strategie alternative nella fase terminale della malattia:
- a) da una parte la strategia della negazione e del controllo che consiste nel proteggere ad ogni costo il malato dalla consapevolezza della morte e nel concentrare ogni sforzo assistenziale nella lotta contro la morte;
- b) dall’altra, invece, la strategia dell’accompagnamento che consiste nel riconoscere i limiti della medicina, spostando lo sforzo terapeutico dal “guarire” al “prendersi cura”.
È proprio questo che si cela nell’agire medico di Gesù: Lui è Dio vicino che si prende cura di noi, spinto dalla compassione.
Il famoso pensatore contemporaneo, il russo ortodosso, Padre Alexander Men, ha insistito dicendo che questa è la prerogativa del cristianesimo sulla sofferenza: Dio non elimina magicamente la sofferenza ma la condivide con l’umanità. Dio soffre con noi. La storia della salvezza rivela la misericordia e compassione di Dio in quanto Dio non abbandona l’umanità nella sua sofferenza, ma ne condivide il peso. E molti santi hanno scoperto il volto di Cristo proprio in coloro che soffrono.
Il segreto sta in un verbo che è l’espressione più bella del ministero di Gesù: COMPASSIONE, in latino CUM-PATIOR, sentire insieme, soffrire insieme; in greco σπλαγχνίζομαι(splangkhnizomai): commuoversi nelle profondità”. Questo verbo ha una radice che richiama le interiora ta σπλαγχνa, le viscere e indica proprio il fremito interiore che un padre o una madre provano, anche a distanza, nei confronti dei propri figli. Una vibrazione interiore che va aldilà della semplice empatia, un coinvolgimento nel profondo, un amore viscerale che non si può spiegare scientificamente, ma solo provare. E uno dei vocaboli ebraici che definisce la compassione e la misericordia di Dio è proprio il termine rachamim,plurale della radice “rechem”, che significa appunto il “grembo materno”.
La misericordia è la eco viscerale dell’amore, la risonanza interiore del legame che unisce inscindibilmente i cuori, il riverbero addominale della passione smisurata di due vite che suonano una sola.
Viene usato undici volte da Gesù e solo rivolto a lui. Gesù viene inondato dalla compassione mentre osserva la sofferenza dei malati, delle persone sole, di chi è nello strazio e privato di tutto. Quando incontra il lebbroso (Marco 1,41), la vedova che ha perso il figlio (Luca 7,13), i due ciechi di Gerico (Matteo 20,34) e le folle (Matteo 9,36; 15,32).
Inoltre nella parabola del Buon Samaritano, Gesù descrive il Samaritano come colui che si imbatte nel ferito sulla strada Gerusalemme-Gerico: “Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione” (Luca 10,33). La compassione distingue il Samaritano dalle persone pie, devote che erano passati per la stessa strada prima di lui, i quali, vedendo il malcapitato, sono passati oltre senza fermarsi.
Nei Vangeli, in tutti i modi, emerge l’importanza del ruolo di Gesù, come medico degli uomini. Vi ricorderete il caso in cui Giovanni Battista chiuso in carcere manda i propri discepoli a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettarne un altro?” Gesù risponde a questa domanda piena di ansietà: “Andate e riferite a Giovanni quel che avete veduto udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono mondati, i sordi odono, morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella (Lc 7,20-22). Gesù qui dà le sue credenziali: guarisce gli ammalati e annuncia ai poveri la Buona Novella: questo per lui è il segno che egli è “Colui che viene”.
Sono sicuro che tutti ricordiamo, per citare un solo esempio, l’episodio della guarigione della suocera di Pietro nell’Evangelo di Marco (1,29-31)
“E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei.
Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano. La febbre la lasciò ed ella li serviva”.
I tre verbi dicono tutto.
- προσέρχομαι: venne presso, si fece vicino, si fece prossimo. Gesù avrebbe potuto guarire anche da lontano, ma sceglie di avvicinarsi con il suo corpo, perché questa prossimità è insita nel suo nome e nella sua identità: Lui è l’EMMAUEL, il Dio prossimo, il Dio vicino, il Dio che non si stacca da noi. La prima medicina in assoluto è stare vicino.
- κρατέω: prendendola (= essere forte, comandare, prevalere. Dal sostantivo κράτος= dominio, forza, potere). Le prende la mano con forza, perché il suo aiuto non è approssimativo, ma decisivo, risoluto. Quella donna sente su di se tutta la forza, l’energia e il calore della mano di Gesù. Una mano che si stringerà così tanto alla nostra sofferenza, da venire unita a noi definitivamente con il chiodo fermo della croce. Da qual momento in poi la sua mano è inchiodata alla nostra per sempre.
- ἐγείρω: (è il verbo della RISURREZIONE) la rianimò, la rimise in piedi. Potremmo dire “SI SENTÌ SU”. È l’effetto immediato della presenza di Gesù nella sua vita. Si rimette sui suoi piedi, risale dalle tenebre della malattia, per continuare a vivere la sua esistenza guarita.
La guarigione del corpo è il suo corpo.
Per questa ragione durante la sua ultima cena, in questa stessa sera, Gesù dona ai suoi discepoli il farmaco del suo corpo e insegna come si usa lavando loro i piedi.
Già Sant’Ignazio di Antiochia, nei primi anni del cristianesimo, scriveva nella sua Lettera agli Efesini: “L’Eucaristia è farmacodi immortalità, antidoto contro la morte e cibo per vivere per sempre in Gesù Cristo.
(Lettera agli Efesini, cap. 20, 2)
L’insistenza sulla necessità di ricevere sempre l’Eucaristia come farmaco che ci guarisce dal peccato e dalla disarmonia la troviamo anche nelle catechesi mistagogiche di sant’Ambrogio che afferma:
«Se, ogni volta che il sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina».
(AMBROGIO DI MILANO, I sacramenti IV, 28 in Opere dogmatiche, III, Milano-Roma 1982, p. 101).
Sì abbiamo veramente bisogno del Corpo di Cristo: la nostra medicina, il nostro energetico.
Allora proviamo a capire che cosa contiene questo farmaco, qual è il suo principio attivo, la sua molecola e quali sono i suoi effetti.
Il componente principale dell’Eucaristia è il tessuto vero del cuore di Cristo e come tale rientra nella fascia dei farmaci salvavita.
1) Il primo effetto potremmo chiamarlo “adrenalina”:l’Eucaristia stimola il cuore e lo spinge a muoversi di più, ad amare di più, a donarsi di più in quel movimento diastolico che è la carità. È un ottimo vasodilatatore, induce coraggio, dal latino “cor-agere”, ovvero “agisce il cuore, lo smuove, lo fa” perché non si spaventi mai di andare di amare nonostante le difficoltà, il dolore, la delusione, il tradimento. Allarga i vasi perché possano mettere in circolo amore con più passione sulla terra.
Evita, così, ogni possibilità di arresto cardiaco che porta alla morte istantanea dell’amore e provoca odio, egoismo, antagonismo, orgoglio, superficialità, lotta e divisione.
2) il secondo effetto “valium”,agisce sul cervello e lo rilassa. Quante preoccupazioni affollano ogni giorno la nostra mente! Contro quanti muri sbattiamo la testa! Quanti problemi siamo chiamati a risolvere! La nostra testa ha bisogno di tranquillità, di serenità! Spesso abbiamo sperimentato l’impossibilità umana di affrontare problematiche superiori alle nostre forze. E proprio lì, nell’Eucaristia, abbiamo trovato pace e serenità e abbiamo ritrovato la speranza per continuare a vivere! Un vero e proprio senso di benessere.
3) L’effetto “voltaren” serve a combattere l’osteoartrosi dell’orgoglio che ci impedisce di camminare verso l’altro: “Non riesco a perdonare il male ricevuto!”; “Se vuole facesse l’altro il primo passo!”; “Ormai la nostra relazione è finita, chiusa”; “Non voglio parlarti più, non voglio sentirti più, esci dalla mia vita!”; “Non verrò a trovarti più neanche da morto!”. Quante volte mangiando il corpo di Cristo ti sei sentito sbloccato, liberato dalla rabbia, dall’odio e dall’istinto di vendetta e hai fatto tu il primo passo e hai mandato tu quel messaggio per riallacciare il dialogo e sei andato tu a suonare al portone di quel tuo fratello, di quella sorella che aveva interrotto ogni rapporto con te. E con la forza di Cristo, tu hai teso quella mano che ha ricucito una ferita lancinante. Troppi gesti sono rimasti bloccati nello scheletro rigido della tua affettività. Gesù spezza il pane e si dà ai suoi discepoli, dona il suo corpo; depone le vesti, si china, e lava i piedi. Noi non siamo più capaci di fare gesti d’amore: un abbraccio, una carezza, una tenerezza, un bacio: che fine hanno fatto? Non immagini quanto sia importante un bacio! È uno di quei gesti che, se ci fai caso, abbiamo dimenticato. Facciamo un piccolo screening: quanti baci hai dato alla mamma? Quanti baci hai dato a papà? Quanti baci hai regalato alle persone che ami, a tuo marito, a tua moglie, ai tuoi figli? Sì magari li inviamo per messaggi, col cuoricino pure, ma spesso ci vergogniamo di darli. Viviamo in una società senza baci. Io al mio papà, negli ultimi istanti della sua vita, ho chiesto scusa per tutte le volte che non l’ho baciato e per tutte le volte che non gli ho detto “ti voglio bene”. Non aspettiamo questi momenti per darci un bacio, la vita è imprevedibile, potrebbe essere troppo tardi. Baciamo di più chi ci sta accanto. Baciamo con tutto l’amore che possiamo. Che bello il padre della parabola del cosiddetto “figliol prodigo”: “lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. L’evangelista Luca utilizza il verbo greco KATAFILEO che tradotto significa baciare forte, sbaciucchiare, baciare con affetto profondo, baciare ripetutamente. È la forma intensiva del verbo baciare. Allora coraggio, diamoci da fare, inondiamo di baci questo mondo, recuperiamo quello non dati, corriamo dai nostri affetti: perché una parola si può dimenticare, un bacio no.
4) L’Eucaristia produce anche un effetto collirio: Ti permette di vedere il mondo, la storia, te stesso con gli occhi di Dio. Purtroppo le cataratte del male ci inducono un’immagine distorta degli altri, come fossero sempre nostri nemici. Ci danno un ritorno di aberrazione anche di noi stessi: “Mi faccio schifo! Non sono buono a nulla! Non ho alcuna capacità! Non servo più a nessuno! Nessuno si interessa a me! Non valgo niente!”. Il cuore dell’Eucaristia è il cuore di Gesù che non smette mai di incrociare i tuoi occhi, di fissarti dal di dentro (emblepo) e di amarti senza riserve, ad occhi chiusi.
5) L’effetto “maalox”ci libera da tutte le reazioni istintive che partono dallo stomaco rallentando le nostre reazioni di aggressività e celerità nel risolvere immediatamente le situazioni. Siamo sempre più uomini e donne “di pancia” che parlano senza pensare, agiscono senza verificare e partono veloci senza progettare. Di pancia si butta in mare un posto di lavoro sicuro per una lite improvvisa con il capo! Di pancia si tradisce l’amore del proprio marito, della moglie per riempirsi lo stomaco di sentimenti alternativi! Dalla pancia deriva il desiderio di autoeliminarsi perché inadempienti alle sollecitazioni degli impegni della vita! L’Eucaristia è un inibitore istintivo, un congelatore della fretta, un deterrente dell’impulso sragionato, un catalizzatore della bellezza interiore. Ci ferma, ci chiede di riposare, ci spinge a tornare e rinsaldare l’amore perduto, a riabbracciare chi ci ha tradito, ci invita a meditare quel “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno!”
Cristina Dell’Acqua nel suo ultimo libro “Una SPA per l’anima”, edito da Mondadori, a pagina 13 scrive:
“Meditatio deriva dalla radice MED- con cui indichiamo in latino, in greco e in italiano l’azione del prendersi cura: da questa radice derivano medico, medicina, medicare e meditare. Sì, meditare. Il verbo meditari è sentito in latino come un frequentativo di mederi, curare appunto, un verbo che indica quanto frequentemente si ripete una azione, come in italiano mordicchiare di mordere e saltellare di salto. Meditare lo è di medicare. I due verbi si frequentano e ci raccontano come l’esercizio della meditazione necessiti di tempo, cura e frequenza, indipendentemente da quando esso avviene”.
Abbiamo bisogno di meditare prima di agire: il perdono nasce dal perdere tempo senza ragione.
Allora non possiamo proprio rinunciare a questo farmaco gratis che ci dona la guarigione dell’anima e del corpo.
Posologia:la dose consigliata è almeno una volta la settimana, nel giorno della Domenica.
Effetti indesiderati: Reazioni negative possono apparire non in chi assume il farmaco ma in parenti e amici che possono definire l’assenza (del paziente, di mezz’ora o di un’ora) un danno per la famiglia. Derisioni e insulti, attribuzione di bigottismo e di debolezza. In casi più gravi l’assuefazione o indifferenza.
Scadenza: – Il prodotto, in sé corruttibile, veicola e deposita germi positivi di incorruttibilità e di risurrezione. Non ha scadenza. Viene confezionato ogni giorno e adempie la promessa di Gesù: “Sarò con voi sempre, fino alla fine del mondo”. (Mt 28,20)
“Se desidero medicare le mie ferite, tu sei medico.
Se brucio di febbre, tu sei la sorgente ristoratrice.
Se sono oppresso dalla colpa, tu sei il perdono.
Se ho bisogno di aiuto, tu sei la forza.
Se temo la morte, tu sei la vita eterna.
Se desidero il cielo, tu sei la vita.
Se fuggo le tenebre, tu sei la luce.
Se cerco il cibo, tu sei il nutrimento. (SANT’AMBROGIO)
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