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Li amò sino alla fine

1 Aprile 2021

Ulisse e Calipso

Omelia del Giovedì Santo 2021

Spesso siamo portati a dare a quell’aggettivo ”ultima” che precede la cena del Signore una connotazione puramente temporale: l’ultima delle cose che Egli ha fatto. L’ultima cena, in realtà, non è l’ultimo atto di Gesù: è il definitivo, quello connota tutta la novità assoluta di quel gesto. Come quando noi diciamo di aver acquistato un prodotto all’ultimo grido. E la novità consiste nel fatto che Gesù si dona spinto da un amore che non conosce il momento ultimo.

Mi piace tanto quell’espressione tipicamente giovanile: “ti amo come se non esistesse un domani!”.

“Ultimo”, allora, ha il senso di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e non vivere rincorrendo l’esistenza all’ultimo secondo.

Durante quella cena Gesù, piegandosi, piega la storia, dandole la forma nuova del tempo che si definisce non nelle cose che passano, bensì in quelle che rimangono per sempre. 

“Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.”

“Avendo amato”, come a dire con tutta la sua storia, senza escludere passato presente tantomeno futuro, non perché l’amore non conosca tempo come spesso si dice, piuttosto amando con tutto il tempo possibile.

E nella consapevolezza di essere giunto alla fine della sua vita, Gesù amò i suoi εἰς τέλος, fino al confine, cioè fino ad ogni limite possibile. Come a dire: Gesù li amò senza limiti, a partire dal limite della sua esistenza. 

Non c’è spazio, tantomeno tempo che possa costringere l’amore di Dio in coordinate precostituite e limitarlo. 

L’amore di Dio non si esaurisce mai, perché Dio non lo ha risparmiato: anzi, meglio, non si è risparmiato.

“Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Romani 8,32)

Non si può amare un po’. Non è possibile dire ad una persona “ti amo un po’ ”. Significherebbe non amarla affatto. L’amore o è tutto o non è. 

Come nei migliori cruciverba, un po’ di amore è “ore”: un amore ad ore, a tempo, in realtà è un lavoro a pagamento, che si realizza nel cottimo di una prestazione retribuita, ovvero una vita prostituita.

Siamo sempre più immersi nella cultura del tempo determinato, del non-definitivamente, del fino a quando mi piace, del fino a che ne ho voglia, del fino a quando mi serve.

Non fino alla fine, ma fino al finire del bisogno.

I bambini vengono sempre più educati alla pedagogia del “non ne voglio più!”. Non finiscono di mangiare tutto il piatto. Se la pietanza non piace, la mamma è sempre pronta a prepararne un’altra di loro gradimento. Altro che i nostri genitori che, allorquando tentennavamo facendo ritmicamente battere i rebbi della forchetta a bordo piatto, ancora colmo di minestra, a scandire la melodia del disappunto, con serenità asserivano: “Quella è se la vuoi, se no digiuno. E se avanza te la mangi stasera a cena. E se avanza ancora, domani a colazione”.

La cultura dell’alternativa sta mettendo le basi per formare la società dell’alibi.

Non ti piace lavorare, non andare! Non ti piace studiare, lascia la scuola! Non ti piace più quel giocatolo, cambialo! Non ti va più quella università, cambia! Non ti piace più quella persona, evitala! Non ti va più di stare a casa, fa’ le valigie e vattene! Tanto devi dar conto solo al soddisfacimento dei tuoi desideri!

Se ci fate caso proprio qui si innestano i prodromi di un mondo sempre più indirizzato a lasciare le cose a metà, ad amare a metà, escludendo la possibilità di amare “a meta”. In quest’ottica la salvezza, si riduce al “si salvi chi può”. La vita si riduce al “fallo presto che poi è troppo tardi”. Il tempo al “corri più che puoi finché sei giovane, se no invecchi e non servi più a nulla”. 

“Tempus edax rerum” il tempo tutto divora, scriveva il poeta Ovidio (Metamorfosi, XV, 234).

E l’obiettivo che riassume tutte queste aspettative è proprio la ricerca spasmodica dell’immortalità, di un tempo insaziabile.

Ma risiede proprio nell’immortalità la vera felicità dell’uomo?

L’Odissea inizia con la notizia di Ulisse prigioniero ad Ogigia da più di sette anni, da parte dell’affascinante e ninfa Calipso che, appunto, era immortale. Ulisse soffre per la lontananza dalla sua casa e dalla sua vita, prigioniero in quell’isola. Calipso, la figlia di Atlante, innamorata persa di lui, ogni giorno con parole suadenti e il fuoco del suo fascino e della sua passione, fa di tutto perché si dimentichi di Itaca, della sua casa ovvero del suo cuore. Οικια in greco significa casa come struttura, luogo e quindi ambiente. Dalla stessa radice deriva la parola οικος che vuole sempre dire sempre casa ma in riferimento ai suoi abitanti. Ulisse nell’Odissea non dice mai di voler tornare ad οικία ma ad οίκος, intendendola come il luogo dei suoi affetti e delle sue relazioni: la moglie Penelope, il figlio Telemaco, il padre Laerte e tutti i servi che vi risiedevano. 

Spinta, però, dall’ordine perentorio di Zeus che le imponeva di liberarlo e lasciarlo tornare alla casa del cuore, Calipso gli confeziona una proposta eccezionale, cui lui non avrebbe mai potuto rifiutare: l’immortalità.

Nell’ultimo suo bellissimo libro “Il nodo magico. Ulisse, Circe e i legami che rendono liberi, Cristina dell’Acqua così scrive:

“La promessa dell’immortalità che Calipso gli propone in cambio della sua permanenza a Ogigia non ha nessuna attrattiva per un uomo che vuole ripartire da se stesso, sarebbe un guinzaglio. […] L’immortalità per quanto appetibile nella sua promessa di giovinezza, salute e bellezza eterne, è la negazione della nostra natura umana e affettiva, vincolata ad una vita al riparo da tutto e da tutti, anche dall’amore, ma non dal dolore di sopravvivere a chi amiamo” (Cit. pag.85).

L’immortalità è la cristallizzazione della vita, che le sottrae la passione dell’unica possibilità di esistere in uno spazio di tempo delimitato da un amore che solo così si può chiamare unico: perché io una sola vita ho, e amo solo te.

All’ultima estrema proposta di restare con lei, Ulisse risponde con una della più belle e sublimi attestazioni di eternità che io abbia mai letto:

“O dea, non adirarti con me per questo. 

Lo so bene: la saggia Penelope è inferiore a te per aspetto e per statura. 

Lei è mortale, tu invece sei immortale e sempre giovane, ma io desidero e sogno di tornare a casa e vedere il giorno del mio ritorno”. (Odissea V 215-20)

Ulisse rinuncia all’immortalità di un affetto che non trova pace e vaga nel tempo e nello spazio e preferisce l’eternità di un amore che si consuma di giorno in giorno negli attimi frugali del rischio della vita quotidiana.

È bellissimo che l’evangelista Giovanni, descrivendo la morte di Gesù, scriva: “Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,30).  

È compiuto, τετελέσται il perfetto passivo del verbo τελέω che significa “finire” dalla cui radice proviene quel sostantivo τέλος che abbiamo trovato all’inizio. Allora potremmo dire: Gesù ha amato fino alla fine, ha dato compimento ad ogni attimo della sua vita, non ha lasciato incompiuto il senso della sua esistenza. In latino “consumatum est”, ha consumato la sua vita. Sì perché quello che non si consuma non ha valore. Il valore delle cose è dato dal loro procedere incessantemente verso la consumazione, perché, ad un certo punto, non ce n’è più.

Quando una persona sta per partire, vorremmo che il tempo si fermasse, ma non potendolo fare decidiamo di rimanere con lei quanto più possibile. E nonostante sia il periodo più amaro, è il più intenso. Ciò che si consuma è intenso. Ciò che si conserva è sigillato dal vuoto dell’indifferenza. 

Perché un oggetto consunto che porta le tracce di una esistenza vissuta acquista più valore e importanza di uno più perfetto e nuovo? 

Perché l’amore lo ha consumato.

Non è, allora, l’aspetto esteriore che conta, altrimenti dovremmo sempre, come ci sta insegnando oggi al tecnologia, cambiare sempre le nostre scelte verso gli ultimi ritrovati, le cosiddette novità.

Nel capitolo 53,2 del Libro del Profeta Isaia, il Servo sofferente 

“Non ha apparenza né bellezza

per attirare i nostri sguardi,

non splendore per poterci piacere”.

L’amore si consuma, non si ferma alla confezione della bellezza estetica, ai bordi della corporeità, non disprezza la pelle accartocciata dalla stanchezza dei giorni, non rifugge dalle rughe solcate dalle liti e delle incomprensioni quotidiane, non ricerca il lifting delle asperità dell’altro, tantomeno il correttore suoi difetti, non si cosparge di crema anti-age per arrestare i segni del passaggio nell’esistenza.

“Io ti amo così come sei: con i tuoi problemi, con i tuoi errori, con la tua puzza”. Io amo le tue imperfezioni e non ti voglio diversamente da quello che sei: altrimenti desidererei un’altra persona che non sei tu!”. Lo so è una follia, ma al contrario non sarebbe amore.

L’amore e l’aspetto si consumano insieme, perché solo così io possiamo amarci allo stesso tempo.

“Le parole di Ulisse arrivano dritte al cuore della nostra fragilità. Ogni donna e ogni uomo vorrebbero sentirsi dire delle parole come queste in loro assenza, perché ognuno di noi può essere spezzato dal sentirsi sostituito, trascurato e abbandonato. È inferiore a te per aspetto e per statura eppure sono le fragilità quelle che ci rendono unici per l’altro, perché siamo fatti di cadute, di liti, di gelosie solo nostre, di rughe e di un corpo destinato ad essere meno affascinante, ma che custodisce la nostra storia (cit. pag. 87).

La felicità dell’uomo sta nella ricerca della eternità, che è pian partecipazione alla vita di Dio, non l’immortalità. 

“Ti ho amato di amore eterno” (Ger 31,3)

E visto che lo scorso 25 marzo abbiamo celebrato i 700 anni dalla morte del Sommo poeta, concludo con il canto 26 dell’Inferno, vv. 90 segg

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ’l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

L’Ulisse di Dante, al contrario di quello omerico, non è trattenuto in patria né dall’amore per la moglie e il figlio né dal rispetto del vecchio padre, ma è vinto dal desiderio ardente di divenire esperto del mondo: perciò riparte di nuovo da Itaca e inizia daccapo un altro viaggio temerario e tragico di sola andata, senza una meta e verso l’ignoto, nel mare sconfinato della conoscenza oltre i limiti, cioè le colonne d’Ercole che già gli antichi ponevano come limite all’uomo. L’Ulisse di Dante è l’esempio dell’ardore per la conoscenza del mondo, per la “sapientia mundi” che però senza la grazia di Dio non può approdare a mete trascendenti.

Questo eterno peregrinare alla ricerca di “case sempre nuove”, di una “oikonomia sempre differente” ci rende costanti cercatori di felicità immortali, che non possono sopravvivere perché vengono ingoiate dall’oceano vasto delle possibilità senza numero.

Ci salverà la nostalgia (νόστος ritorno + άλγος dolore ovvero dolore del ritorno) il sentimento struggente di tristezza e rimpianto per la lontananza da persone o cose care della casa del cuore dove, seppur nella ovvietà del quotidiano, si consuma il nostro amore.

E a quella stanza di quella casa, di quel cenacolo al piano superiore, oggi torniamo tutti per imparare da Gesù ad amare fino alla fine. Un amore eterno.

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