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OMELIA DELLA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE 2016

24 Marzo 2016

lavandapiediGIOVEDÌ SANTO 2016

MESSA NELLA CENA DL SIGNORE E

LAVANDA DEI PIEDI AI FIDANZATI DEL CORSO PREMATRIMONIALE CHE SI PREPARANO A RICEVERE IL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

 

GIOVANNI 13,4-5

Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.

 

Quello della lavanda dei piedi era un tipico gesto di accoglienza nella antica cultura semitica, prima di ogni invito a pranzo. Si camminava scalzi o semplicemente rivestiti di sandali aperti, su strade sterrate e sconnesse: i piedi venivano ricoperti di una coltre di fango e polvere, erano la parte più sporca del corpo. Solo che qui, nel racconto di Giovanni, c’è qualcosa che non quadra, qualcosa che stupisce. L’azione di Gesù si colloca, non prima, ma durante la cena e questo non piccolo particolare richiama subito la nostra attenzione perché non è un fatto usuale lavare i piedi dei commensali.

Durante quella cena, mentre mangiavano, Gesù si prepara a lavare i piedi ai discepoli mettendosi nella tenuta dei servi: depone le vesti (in greco “imatia” al prulare) si cinge di un panno e versa l’acqua in un recipiente speciale che prende il nome dall’atto del lavare, “niptêra”.

Giovanni qui utilizza un verbo bellissimo tithemi che possiamo tradurre con deporre, togliere, mettere giù. Lo usa anche nel senso di “offrire” quando parla del pastore bello nel capitolo decimo del suo Evangelo

È il pastore bello che depone (titesin da tithemi) la propria vita per le sue pecore (Gv 10,11).

 

Don Tonino Bello, nel suo libro “Cirenei della gioia”, scrive così:

“Non è solo una questione di guardaroba né un gesto casuale insignificante. Giovanni, che misura e soppesa tutti i vocaboli, mette questo particolare perché senz’altro c’è sotto qualcosa. Ho già accennato al parallelismo tra il deporre e riprendere le vesti e l’espressione di Gesù: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo».

Deporre le vesti nel linguaggio di Giovanni significa deporre la vita: Deporre le vesti significa perdere la vita, lasciarci la pelle: è la dimensione del sacrificio, la dimensione della croce, che connota – deve connotare – anche il nostro impegno pastorale”.

 

Gesù si spoglia delle sue vesti, cioè della sua vita, per lavare i piedi.

 

Il vestito nella Bibbia è simbolo d’identità, dignità, condizione e indica ciò che si ha nel cuore. Nei racconti della creazione, Dio veste Adamo ed Eva, i quali, dopo avere commesso il peccato, si accorsero di essere nudi. La nudità che, in questo caso, genera vergogna, indica l’esperienza della fragilità umana, della miseria provocata dal peccato che rompe le relazioni con Dio e fa perdere la trasparenza di figli del Creatore.

Nei racconti patriarcali, Giacobbe al figlio Giuseppe, in segno di predilezione «aveva fatto una tunica dalle maniche larghe» (Gen 37,3). Dopo che essa gli fu strappata, in Egitto dove era stato condotto, Giuseppe riceve dal Faraone una nuova tunica: «lo rivestì di abiti di lino finissimo» (Gen 41,42). La dignità strappata, gli viene riconosciuta e restituita. Questa seconda tunica esprime, però, non solo il riconoscimento della sua grandezza quanto soprattutto la nuova identità interiore che Giuseppe aveva raggiunto dopo tanta sofferenza vissuta nella fedeltà al suo Dio. Dio afferma la dignità di Eliakìm vestendolo di una tunica: «Chiamerò il mio servo Eliakìm… lo rivestirò con la tua tunica lo cingerò della tua sciarpa e metterò il tuo potere nelle sue mani» (Is 22,19-21). Nel libro di Ester, la veste, fatta indossare a Mardocheo, attesta la benevolenza del re e il riconoscimento pubblico a un uomo che agì con giustizia, anche a rischio della vita (Ester testo ebraico 8,15).

In pratica nella Bibbia l’abito conferisce dignità ai re, i quali sono tenuti a guidare il popolo loro affidato nella fedeltà all’alleanza con Dio (1 Re 22,30; 2 Re 9,13); ai sacerdoti (Lv 21,10; Sir 50) le cui vesti indicano il loro ruolo di mediazione. Nella veste del sommo sacerdote erano impresse i nomi dei figli di Israele sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod (cfr. Es 28, 6-14); ai profeti il cui abito indica la sobrietà e invita alla penitenza (1 re 19,19; Zc 13,4; Mt 3,4). Cambiare abito significa cambiare stile di vita ovvero convertirsi: i cittadini di Ninive «vestirono il sacco, grandi e piccoli» (Gion 3,5).

Nella parabola del padre misericordioso il simbolo del vestito è predominante: Il figlio andando via di casa non solo sperperò i suoi beni, ma ripudiò, insieme al padre, la sua identità filiale. Ritornato a casa, il padre, l’unico che poteva farlo, gli fece indossare il vestito più bello che indica il suo essere figlio e non servo (Lc 15,22).

L’apostolo Paolo esorta i battezzati a ‘indossare Cristo’. Ciò significa che Cristo Gesù deve potersi vedere nel cristiano così come si vede il vestito. Esso indica all’esterno ciò che riempie il cuore. Il cristiano, infatti, con i suoi comportamenti esprime i valori di Cristo che lo abitano e sono tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, misericordia, bontà (Col 3,12; cfr. Gal 3, 26-29; Rom 13,14). Coloro che non hanno per vestito l’abito nuziale non possono partecipare alla festa (Mt 22,11-12).

Nell’Apocalisse, ultimo libro della Bibbia, la veste è il segno dei martiri (Ap 6,11), ma anche della folla immensa, che nessuno poteva contare, il cui abito è lavato nel sangue dell’Agnello (Ap 7,9.13-14; cfr. Ap.22,24); gli angeli, pure, sono vestiti di lino puro, che indica la funzione sacerdotale che stanno per compiere (15,5); il vestito di lino puro splendente di gran pregio contrasta con l’abbigliamento sfarzoso e scintillante della meretrice (17,4; 18,16).

Cari amici non si può servire vestiti, non si può amare coperti! L’amore mette a nudo.

L’amore, quello vero, comporta sempre una rinuncia al proprio vestito, a se stessi, al proprio io, al proprio orgoglio, talvolta anche al proprio habitus, cioè alle proprie abitudini, alle proprie consuetudini, ai propri costumi.

Tra due persone che si amano, spogliarsi per fare l’amore è facile, spontaneo, istintivo. Ma spogliarsi per lasciarsi fare dall’amore è difficilissimo!

Perché il passivo dell’amore è molto più forte della passione d’amore.

Allora se volete veramente amare, cominciate a spogliarvi.

Spogliatevi dell’abito lussuoso dell’orgoglio che vi fa pensare di avere sempre ragione e di stare sempre dalla parte del giusto, che condiziona la relazione mediante un paradigma assoluto: “Se vuoi stare con me, è così, se ti conviene, se no quella è la porta per uscire dalla mia vita!”. È un abito integrale: copre la testa, il cervello, gli occhi, il cuore, tutto di te. L’altro è ridotto ad un soprammobile, ad un accessorio, strumentalizzato a fini personali, sessuali, materiali. Fate attenzione: la morte dell’amore è l’orgoglio che determina il valore assoluto di ogni asserzione personale: l’altro non può nemmeno pensare, non ha nemmeno il diritto di parola. Non sottovalutate molto facilmente questo cancro dicendo velocemente “No, io non sono così, non mi appartiene!” Pensate alla vostra vita quotidiana, pensate a quando andate a fare la spesa, pensate alla scelta del colore delle mattonelle del bagno, pensate alla decisione ultima sull’elenco degli invitati in sala, alla bomboniera, alla destinazione del viaggio di nozze. Come è difficile accettare di aver sbagliato, come è difficile ammettere l’errore, come è difficile pronunciare quelle benedette parole: TI CHIEDO SCUSA!

Lasciatevi fare dall’amore, arrendetevi al fascino della comunione, chinatevi alla legge suprema della relazione.

Spogliatevi dell’abito consunto della ovvietà che vi fa pensare che nell’amore tutto sia scontato, tutto sia normale, al limite superfluo. Ci sono coppie che dopo un po’ di tempo riducono, fino ad annullare completamente, il linguaggio dell’amore.

“E perché ti devo dire che ti amo? Lo sai già!”

“E perché ti devo dire che ho bisogno di te, è ovvio!”

“E perché devo abbracciarti, baciarti a che serve, ormai siamo sposati, quelle sono cose da fidanzati!”

L’ovvietà sentimentale è il vestito dei pezzenti dell’amore, così tirchi, da costringere l’altro ad andare ad elemosinare affetti. L’amore non si elemosina mai, perché l’amore arricchisce l’altro. Pertanto uscite presto da questa monotonia affettiva e come ha fatto Gesù, alzatevi da tavola e cominciare a servire l’amore e non a servirvi dell’amore.

Alzatevi perché non abbiamo bisogno di cuori poltroni, di affettività sedentarie, di relazioni bradicardiche. L’amore va detto sempre, va sempre gridato, va sempre pronunciato perché il “non detto” non è mai evidente. Che brutta malattia l’afasia, porta alla necrosi precoce di ogni relazione.

Ditevi sempre tutto, ditevelo dovunque, mantenete sempre acceso il dialogo, spegnete telefoni, telefonini e televisori quando state insieme e parlate anche di cose scontate, ditevi anche le cose più assurde, ma parlate. E magari arrabbiatevi pure: meglio una voce alzata, che una storia sgonfia e abbassata, praticamente vestita già in pigiama.

 

Spogliatevi delle robe pesanti da lavoro che vi fanno pensare che ci sia sempre qualcosa di più importante da fare. C’è gente che sta in tuta da lavoro dalla mattina alla sera. C’è gente attaccata al telefonino tutto il giorno per le chiamate di emergenza.

“E il lavoro è lavoro! Se non vado a lavorare come faccio a portare il pane a casa?”

“Il lavoro è una priorità, non si può farne a meno”

Cari ragazzi voi vi preparate al matrimonio, non ad una semplice convivenza con un altro individuo! L’amore non ammette attese, non ammette altre priorità. L’amore è, in assoluto, al di sopra di ogni altra cosa e viene prima anche del vostro lavoro.

Guai a voi se vi ritirerete a casa con la testa carica di problemi lavorativi da vomitare addosso all’altro!

Guai a voi se ogni giorno vi rientrerete tardi, senza energie, distrutti dalla giornata, senza forze se non quelle di voler sprofondare in un divano di fronte ad un televisore!

Guai a voi quando non vi renderete conto di aver sposato la causa del lavoro e non una moglie o un marito. Se toglierete tempo al lavoro forse non farete carriera, ma se toglierete tempo alla famiglia, prima o poi perderete il posto fisso nel suo cuore.

Lasciatevi fare dall’amore e lasciate fare all’amore.

 

Spogliatevi della vostra stessa vita, e chinatevi sulla parte più sporca dell’altro, quella parte così putrida e puzzolente, a tratti schifosa, la più infima e meno intima, quella che attrae meno l’attenzione. Lavatevi i piedi, come ha fatto Gesù a tutti i suoi discepoli, anche quelli di colui che lo tradiva.

Nell’apocrifo giudaico “Giuseppe e Asenth”, probabilmente composto in greco in un arco di tempo che va dal primo secolo a.C. al secondo d.C., si presenta l’atto di lavare i piedi all’ospite di riguardo (JosAs. VII ,1) e questo gesto è attribuito alla moglie Aseneth nei confronti del marito Giuseppe (XIII,2); anzi Aseneth considera questo un segno ed espressione del suo amore per il marito. Infatti prima del pranzo nuziale Giuseppe vorrebbe che fossero le serve a lavargli i piedi, ma la moglie Aseneth replica:

«No, mio signore, perché tu da questo momento sei il mio padrone e io sono la tua serva. E perché tu dici che un’altra ragazza ti lavi i piedi? Dal momento che i tuoi piedi sono i miei piedi, e le tue mani le mie mani e la tua anima la mia anima, un’altra donna non ti laverà mai i piedi. (lbid. XX, l-5; cf. Ket. 61a Ket. IV ,8,Pea 1,15c).

Deponete la vostra vita, lavatevi i piedi con l’acqua del perdono anche se saranno sporchi di tradimento, di sangue, di incomprensioni. L’amore non viaggia sui tacchi eleganti delle passerelle gioiose della nostra società, dove tutto brilla di pulito. L’amore attraversa il fango delle strade impervie della vita e delle cadute folli della storia. La soluzione non è mai girarsi e andare via, ma chinarsi e rimanere su quei piedi, proprio quelli, solo quelli, senza cercarne altri più belli, più forti, più puri.

Quando Gesù si è chinato a lavare i piedi ai suoi discepoli, non ha saltato Giuda, non ha cercato altri piedi, non ha fatto paragoni con i piedi di Giovanni, il discepolo amato. E a Pietro non ha posto condizioni del tipo “Ti lavo i piedi se non mi rinneghi; ti lavo i piedi se mi prometti di non allontanarti mai da me”.

Così anche voi non vi fate imbrigliare mai in falsi paragoni con altri uomini o donne, che non ci vuole mica tanto ad essere migliori di vostro marito o di vostra moglie! L’amore non cerca alternative, non fa paragoni, non “cerca il proprio interesse”. L’amore cerca l’amore.

San Paolo ai Filippesi scrive così: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”.

Qui San Paolo utilizza il verbo EKENOSEN, da kenoo che non significa propriamente spogliarsi, ma addirittura significa svuotarsi, rendersi vuoto, perché se non ci si svuota del proprio ego in una vera e propria kenosis esistenziale, non si potrà mai far spazio all’altro nella propria vita. Un’esistenza occupata dal sé, non lascia spazio libero all’altro.

E voi siete pronti a spogliarvi? Siete pronti a rinunciare a tutto? Siete pronti ad amarvi fino alla morte? Siete pronti a svuotarvi? Siete pronti a lasciarci la pelle?

E se non siete ancora pronti, cominciate almeno dalle piccole cose, cominciate dai calzini, il resto lasciatelo fare all’amore e lasciatevi fare dall’amore.

don Gaetano

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