donAmore.it

Omelia del Giovedì Santo 2018

30 Marzo 2018

Giovedì Santo 2018

Messa “in coena Domini”

Lavanda dei piedi ai papà

  1. Una società senza padre

Nel 1963, Alexander Mitscherlich, medico e psicoanalista tedesco, scrisse un libro chiamato “Verso una società senza padre”, edito in italiano da Feltrinelli, testo ancora attuale dopo mezzo secolo.

L’autore, attraverso un’analisi sociologica e psicoanalitica, faceva i conti con la storia novecentesca della Germania e dell’Europa, contrapponendo alle esperienze autoritarie del nazismo e del socialismo la spinta antiautoritaria che cominciava a crescere all’inizio degli anni sessanta e mettendo in luce l’avviarsi delle diverse società verso organizzazioni prive di gerarchie che chiamerà “società senza padre”. Ciò che Mitscherlich mette in evidenza è che una società senza padre è una società in cui c’è una “totale svalutazione” della figura paterna, senza alcun investimento emotivo ed affettivo, priva di processi evolutivi di identificazione e dunque carica di sentimenti di frustrazione, impotenza e aggressività. Oggi, la società, in preda ad una crisi di identità, mentre tende a sopprimere questa figura, risulta incapace di modificarne l’immagine e  il ruolo, alimentando nel bambino nuove fonti di angoscia. Siamo di fronte ad una società piena di adulti “bambinizzati” e di bambini “adultizzati”.

La nostra epoca è dunque “segnata” dalla morte del Padre, dalla morte di Dio, come aveva proclamato Nietzsche.

Per superare questa crisi di assenza della figura paterna basta attingere al tesoro prezioso della Parola di Dio.

  1. Abbà

Quando i discepoli chiesero a Gesù “insegnaci a pregare”, Lui non diede loro una formuletta magica per chiedere qualcosa a Dio, ma sintetizzò loro, in una parola, una relazione. Perché non c’è preghiera senza relazione.

“Quando pregate dite Abbà”. Abbà deriva dall’aramaico ed è il vezzeggiativo informale di padre. Oggi lo tradurremmo meglio con “paparino”, parola che lascia intravedere un rapporto di intima confidenza, di profondo affetto che accorcia le distanze da quell’ossequioso “Padre” tuttora utilizzato nella liturgia.

La relazione con il padre non può non essere basata sulla tenerezza. Mentre, infatti, il rapporto del bambino con la madre è del tutto naturale, simbiotico, viscerale, quello con il padre è una non semplice scommessa. Il bimbo ha vissuto per nove mesi nell’ambiente protetto del grembo materno: la mamma crea un legame di sincronizzazione attraverso il quale è sempre in relazione con i bisogni nel bambino. Ma il padre è il primo “estraneo” di cui ascolta la voce, il primo uomo di fronte a lui, il primo diverso. Da lui prende avvio quel processo di prima socializzazione di cui la figura paterna è pioniera.

Una vera e propria, non semplice, impresa: relazionarsi con quel figlio che per quasi un anno ha dialogato esclusivamente con la sua mamma. Ecco che quall’”Abbà” diventa il paradigma della tenerezza paterna che si traduce non tanto nel donare affetto, ma soprattutto nel lasciarsi amare dal figlio, conquistando, giorno dopo giorno, la sua fiducia e l’interpretazione del suo linguaggio.

È meravigliosa la descrizione della dolcezza forte di Dio, “mamma aquila”, nel Cantico di Mosè riportato dal libro del Deuteronomio al capitolo 32, 9-11:

Porzione del Signore è il suo popolo, sua eredità è Giacobbe.

Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari.

Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un`aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali.

In questo modo il papà stesso, con la sua tenerezza, diviene capace di generare suo figlio e non solo di accoglierlo. San Tommaso parlando del padre e della famiglia li definiva «uterus spiritualis» (S.Th.,II-II,q.10 a.12), tanto che l’utero paterno diventa il contenitore protettivo, a tempo non determinato, della vita del figlio dalla nascita in poi, nonostante le future distanze e separazioni.

Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo 14, 8-10, Filippo chiede a Gesù: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. 9 Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?

Io sono nel Padre e il Padre è in me: questo essere dentro l’un l’altro è l’utero divino del Padre.

L’utero del papà sono le sue manone che avvolgono; l’utero del papà è la sua voce che imprime sicurezza; l’utero del papà è la sua comoda pancia che, stretta per bene, assorbe tutte le lacrime di dolore; l’utero del papà è la sua schiena che ti rassicura nel sonno, quando ti sei accertato che vibra di respiro, che è ancora vivo. E anche se russa, e russa forte, quella è solo la manifestazione sonora della sua presenza.

Scrive Freud:

“Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari

al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre”

(S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929)

Al contrario, il padre-padrone che detta ordini, che mantiene le distanze, che vuole solo farsi rispettare per il ruolo della sua patria potestas, che non prende in braccio il bambino, che torna a casa solo per gridare e comandare, che rimane freddo, che non bacia mai, che non esprime affetto, che diventa aggressivo, è un utero chiuso: è, scusate il termine abbastanza violento, un aborto, uno che non consente la vita. È un isterico, nel senso più etimologico del termine, cioè uno che dal suo utero è capace solo di partorire solo freddezza e spesso anche rabbia.

  1. Il padre che vede nel segreto

Continuando oltre la preghiera del Padre nostro, sempre al capitolo 6 di Matteo, quando si parla del sacrificio e del digiuno da non mostrare al mondo, il testo si conclude con questa espressione: “e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,18).

Il padre non è un tipo distratto, non è un tipo superficiale che crede di conoscere il figlio incontrandolo una volta al giorno ai bordi di una tavola muta, relegando alla figura materna le questioni più profonde perché “di queste cose veditela con tua madre”.

La scommessa più grande per un genitore è il raggiungimento di quella empatia viscerale capace di vedere il figlio nel suo segreto aldilà di ogni dialogo verbale e nello stesso tempo la possibilità che il figlio, con molta naturalezza e senza paure di giudizi o repressioni, gli manifesti i suoi segreti più intimi. Che bello sentire dalla bocca di un figlio: ”io dico tutto a mio padre senza problemi”!

Attenzione questo non significa ridurre la relazione padre-figlio a quella amico-amico. Questo riduzionismo, determinato dal crollo della distanza educativa, provoca una relazione sterile, infruttuosa perché i figli di amici ne hanno tanti, di padri solo uno.

Nell’Udienza generale del 28 gennaio 2015, così scriveva Papa Francesco:

“E’ più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani. 

Sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti, anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano con i loro figli, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari” con i figli. E’ vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre! Se tu ti comporti soltanto come un compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo”.

  1. Un padre che perdona (Lc 15,11-32)

Non esiste parabola più bella che sappia delineare il volto della misericordia del padre, se non quella più comunemente conosciuta del “figlio prodigo”.

Al figlio che pretende i suoi averi e va via, il padre non chiude le porte con il chiavistello della rabbia. Le lascia aperte. E rimane alla finestra. In attesa.

Non dice al figlio: ”Vattene, con me hai chiuso!” Gli dice “Vai perché con me ti puoi aprire sempre”. Questa relazione misericordiosa è importantissima.

I FIGLI NON SI CACCIANO MAI! MA AD OGNUNO LASCIARE SEMPRE UNO SPIRAGLIO APERTO DI SPERANZA.

Perché da quella fessura fuoriesce sempre un raggio di luce che, a mo’ di faro, indica sempre la rotta del ritorno a casa. E il faro affascina, prima o poi attira, invita al rientro.

Quel padre, che come ogni padre aveva sempre pensato per il proprio figlio “Farò di tutto per te”, ora lascia cadere l’accento per diventare silenzioso fascio luminoso. “FARO di tutto per te”.

Lui sta lì e aspetta, con la porta aperta; con il rischio di ammalarsi, ma non la chiude.

Quando era ancora lontano il padre LO VIDE, SI COMMOSSE PROFONDAMENTE, GLI CORSE INCONTRO, GLI SI GETTÒ AL COLLO E LO BACIÒ

Basterebbero questi 5 verbi a descrivere l’irruente misericordia del padre che, appena scorge il figlio da lontano, NON CAPISCE PIU’ NIENTE!

ἐσπλαγχνίσθη (che bello questo verbo!) : “si commosse nelle sue profondità”. Questo verbo ha una radice che richiama le interiora (ta σπλαγχνa), le viscere, perché la misericordia altro non è che il fremito delle viscere che un padre o una madre provano, anche a distanza, nei confronti dei propri figli. Una vibrazione interiore che va aldilà della semplice empatia, un coinvolgimento nel profondo, un amore viscerale che non si può spiegare scientificamente, ma solo provare.

E uno dei vocaboli ebraici che definisce la misericordia di Dio è proprio il termine rachamim, plurale della radice “rechem”, che significa appunto il “grembo materno”, ma anche il “grembo paterno”

La misericordia è la eco viscerale dell’amore, la risonanza interiore del legame che unisce inscindibilmente i cuori, il riverbero addominale della passione smisurata di due vite che suonano una sola.

δραμὼν: “essendo corso”. Quel Padre corre perché freme d’ansia per il figlio: quel figlio che è corso lontano da lui ora è rincorso dall’amore paterno. “Quando l’uomo smette di fuggire, si accorge che colui dal quale scappa per paura, gli corre dietro, perché gli vuole bene. È stata lunga la corsa di Dio verso l’uomo. E non finirà fino a quando non avrà raggiunto l’ultimo” (Silvano Fausti). Questa scena mi riporta alla mente il piazzale delle ferrovie o gli “arrivi” degli aeroporti: appena si aprono le porte, appena spunta l’amore, in quello stesso istante parte la rincorsa dai blocchi di partenza, perché il desiderio dell’altro è più forte della decenza del luogo pubblico e la voglia di toccarlo supera ogni paura e vergogna. È qui che l’uomo si scopre atleta per passione.

ἐπέπεσεν ἐπὶ τὸν τράχηλον αὐτοῦ: letteralmente “cadde sopra il collo di lui”. Non c’è verbo più bello che indichi questo passivo di passione: si lascia cadere, vinto dall’amore, sul collo del figlio, il luogo del respiro, della vita, della intimità; si abbandona a lui sfinito dalla passione.

καὶ κατεφίλησεν αὐτόν: e lo baciò. Anzi quel kata indica un rafforzativo del verbo baciare. Quindi lo dovremmo tradurre con “lo baciò ripetutamente” , “lo baciò forte” o meglio “se lo sbaciucchiò”. È il contatto d’amore. Il bacio è latore di tutto l’amore contenuto dentro il cuore, trasporta la passione interiore, comunica il respiro della vita: è il canale che veicola lo spirito interiore, trasfondendolo nello spirito dell’altro attraverso le labbra dell’anima.

A questo punto, sorpreso e travolto dalle esuberanti iniziative del padre, cede le armi, entra in un profondo silenzio e, pieno di confusione, lascia fare. E giusto in questo momento incomincia finalmente a conoscere chi è veramente il padre suo, si rende conto di quale amore ha trascurato e offeso e il suo peccato gli appare ancora più grande. Si vede beneficiato da una misericordia che non merita: eppure questa misericordia è lì che sta guarendo le sue ferite e si prepara a saziare la sua fame in modo straordinario, in quel clima di festa che lui aveva cercato invano lontano dalla casa paterna.

Cari papà la sorpresa del perdono ce l’hanno insegnata i nostri papà. Quante volte siamo tornati a casa col timore di ricevere tante botte e invece siamo stati abbracciati. Quante volte abbiamo rotto cose preziose e anziché accuse ci siamo sentiti dire: “non importa, basta che tu non ti sia fatto niente!”. Il perdono è una sorpresa che esce dal cilindro del cuore di ogni papà ed è così bella che non la dimentichi per tutta la vita. Perché un papà è grande quando perdona, ma anche quando sa chiedere scusa al proprio figlio.

  1. «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18)

Nel capitolo 14 dell’Evangelo di Giovanni, Gesù fa una promessa ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani». Cari papà è questo il vostro compito principale. Non lasciate i vostri figli orfani.

Li lasciate orfani quando non trascorrete tanto tempo con loro. Quando pensate troppo al vostro lavoro e rientrate tardi a casa, tanto tardi da vederli solo nel sonno. È vero che il vostro lavoro è prezioso, ma è anche vero che il tempo non è solo denaro. Il TEMPO E’ AMORE. Meno lavoro, più amore. Meno guadagnate, più investite sulla relazione con i vostri figli. L’economia dell’educazione è un tempo in perdita, come ogni padre disposto a perdere la vita per il proprio figlio.

Li lasciate orfani quando non giocate con loro, quando non li portate con voi in giro, quando non li portate con voi allo stadio, quando non li portate a mare insieme, quando non perdete tempo e spazio con loro. La play station, il telefonino, la televisione sono solo surrogati di paternità in scatola.

Li lasciate orfani quando non cambiate il pannolino, quando non fate loro il bagnetto, quando non spingete il passeggino, quando non andate ai colloqui a scuola perché quelle sono cose di donne. No cari! Quelle sono cose di genitori.

Li lasciate orfani quando ad ogni loro richiesta di aiuto voi chiamate vostra moglie e dite: ”vedi che vuole tuo figlio!”, rinunciando anche per un attimo alla vostra paternità.

Li lasciate orfani quando non pregate con loro, quando non trasmettete loro la passione per Gesù, quando non li portate in Chiesa perché non sono cose da uomini. Dio è padre, e nessuno meglio di un padre, lo sa raccontare al figlio.

Se non farete tutto questo, non li lascerete orfani, nemmeno quando morirete.

Appena mio padre morì, volli fargli la barba. Per tante ragioni. A farmi la barba me lo aveva insegnato lui, dopo che da piccolo chissà quante volte lo avevo osservato incantato. Sì perché quando un papà si fa la barba, è come una magia. Volevo dirgli con quel gesto che quel bambino che aveva messo al mondo era diventato un uomo e che aveva imparato da lui a farsi la barba da solo. È stato come ricambiargli un po’ di tutto quell’amore che mi aveva regalato nella sua vita.

  1. «Io sarò con te» (Is 43,2)

Lo psicanalista Massimo Recalcati scrive che grava specialmente sul padre il compito di «offrire testimonianza di come sia possibile […] esistere senza voler morire e senza impazzire» (Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina 2011, p. 160).

Il papà è la roccia, è il coraggio, è la forza che ti permette di non impazzire e continuare a vivere nonostante tutto. Solo per il fatto che c’è tutto si tranquillizza.

Cari papà ripetetelo sempre ai vostri figli: “Io sono con te” come in quella bellissima manifestazione di amore, nel libro del Profeta Isaia (43,1-4):

1 Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. 2 Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; 3 poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore. […] 4 Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo, […] 5 Non temere, perché io sono con te”.

Comments are Disabled

Twitter