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OMELIA GIOVEDÌ SANTO 2015

13 Aprile 2015

Lettera alle Famiglie che hanno un figlio in Cielo

 

Care Mamme e Papà,

Vi scrivo questa piccola lettera in un giorno davvero importante del Triduo Santo, un giorno denso di mistero e particolarmente potente perché contiene la forza della vita che nasce e l’energia della vita che rinasce.

Oggi, Giovedì Santo, durante l’ultima cena lo Spirito partorisce la Chiesa e la unisce strettamente al suo Signore insieme al quale è destinata a morire e a risorgere.

Anche voi avete vissuto lo stesso mistero nel grembo della vostra famiglia: una vita che nasce, una vita che muore, e non dimentichiamolo mai, una vita destinata a risorgere in Cristo: non dobbiamo mai disgiungere il Giovedì Santo (la nascita), il Venerdì Santo (la morte) e il Sabato Santo (il Silenzio) dalla Domenica della Risurrezione (la vita nuova). Perché Pasqua non è un giorno unico e statico. Pasqua significa PASSAGGIO, indica un movimento DA – A, implica una migrazione. Non ė il traguardo della Domenica da guadagnarsi con affanno, non è la sospirata meta da raggiungere attraverso la via impervia della sofferenza quaresimale. Pasqua è il Giovedì Santo, Pasqua è il Venerdì Santo, Pasqua è il Sabato Santo, Pasqua è la Domenica, Pasqua è ogni volta che passiamo dalla morte alla vita.

L’anti Pasqua, il pericolo più grande in assoluto, è quando ci areniamo alla nascita o rimaniamo rinchiusi nel sarcofago della morte.

Cosa abbiamo oggi di fatto nel nostro cuore? I ricordi belli di quando abbiamo appreso la notizia della nascita e quelli tremendi di quando abbiamo appreso la notizia della morte: questi due poli ci fanno impazzire. Cristo è Risorto per rompere questo macabro bipolarismo e liberare una ulteriore possibilità di vita. Allora cosa c’è oltre la gioia del parto? Cosa c’è oltre il dolore della morte?

La risposta che più ci viene spontanea è “niente di niente”. Nulla.

Di fatti quando nasce un bimbo esclamiamo: “non c’è nulla di più bello!”, quando muore un figlio “Non c’è nulla di più brutto e terribile!”.

Ed è proprio così: non c’è dolore più grande al mondo che perdere un figlio.

Nella Bibbia un dolore così grande è descritto nel Libro di Tobia (10,1-7)

“Anna moglie di Tobi diceva: “Mio figlio è morto e non è più tra i vivi“. E cominciò a piangere e a lamentarsi sul proprio figlio, dicendo: “Ahimè, figlio, ti ho lasciato partire, tu che eri la luce dei miei occhi!”. Le rispondeva Tobi: “Taci, non stare in pensiero, sorella; egli sta bene. […] Ma lei replicava: “Lasciami stare e non ingannarmi! Mio figlio è morto”. E subito usciva e osservava la strada per la quale era partito suo figlio; così faceva ogni giorno e non si fidava di nessuno. Quando il sole era tramontato, rientrava a piangere e a lamentarsi per tutta la notte e non prendeva sonno”.

È il grido di dolore di una madre, Anna, che non riesce a trovare pace perché ha perduto la “luce dei suoi occhi” che non solo è morto, ma specifica “non è più tra i vivi”, cioè “non lo posso toccare più”!

E quando arriva la sera si rinchiude in casa e piange tutta la notte senza prendere sonno. La malattia più brutta è l’insonnia dell’amore perduto. Quando si perde la luce degli occhi, si resta nel buio della morte e non serve alcuna consolazione umana, nessun conforto, nessuna parola può minimamente alleviare questa sofferenza atroce. Tobi suo marito, ci prova invano. Lei ogni giorno pensa che suo figlio, per qualche strada, possa rientrare a casa. Sente che è così. Sente che, in qualche maniera, esiste una strada per tornare indietro dalla morte: la ragione non l’ammette, ma il cuore non si ferma agli sbarramenti della razionalità.

D’altronde se si riflette un po’ su che cosa è il parto, ci si accorge che c’è sempre, comunque, nel parto, una dimensione di morte che la donna deve attraversare. Quando una donna partorisce, di solito c’è la paura del dolore, di ciò che può succedere, c’è la percezione che il parto possa effettivamente far sfiorare la morte o addirittura provocarla. La donna sente molto bene questo, sa molto bene che potrebbe morire, anche se non lo dice, lo sa. Ma il suo partorire è anche sempre vissuto come un momento di grande liberazione perché la gravidanza negli ultimi mesi si fa sempre pesante, perché il peso del bambino è complicato da portare, tanti disturbi, tanta fatica e poi il desiderio di vedere questo bambino, di sapere se è sano, di sapere come è.

Dunque, atteggiamenti contrastanti davanti al parto, dove però c’è un elemento che viene fuori in tutte le donne quando poi riflettono, quando riescono a rielaborare l’esperienza del parto: c’è tutto questo, la gran gioia perché il figlio nasce  e insieme una percezione molto forte di una perdita, perché adesso questo figlio che è nato non appartiene più a loro. La donna per nove mesi ha portato questo figlio in grembo e il figlio era suo e solo suo, e completamente dipendente da lei, e lei lo possedeva e lei lo gestiva (è una gestante!). Adesso c’è una grande gioia: è nato il figlio; però c’è qualche cosa di particolare. È nato un figlio, e ora ho finalmente “acquistato un figlio”, come dice Eva quando nasce Caino, perché questo adesso è veramente mio figlio, diventa un interlocutore, è mia la carne, al di fuori di me, e però io l’ho anche perso, non è più mio.

Si vive nel parto simbolicamente quello che poi la donna deve continuare a vivere nella sua vita di madre, per es. nel momento dello svezzamento, dove c’è un distacco ulteriore dal figlio (la madre non è più colei che nutre il figlio), poi il momento in cui il bambino va a scuola, il momento in cui diventa adolescente e quindi c’è il passaggio anche iniziatico della pubertà, poi va con le altre donne perché si trova una moglie, e la madre lo perde, e se vuole che suo figlio viva la madre deve accettare di perderlo.

Ciò avviene fisiologicamente, ma è segno e simbolo di ciò che dovrebbe avvenire in ogni rapporto di maternità o di paternità. Bisogna decidersi a partorirli questi figli; il che vuol dire che bisogna decidersi a lasciarli uscire da noi, a riconoscerli come diversi da noi, non più inglobati dentro di noi, e una volta che ci siamo decisi a lasciarli nascere, a partorirli, è necessario pure svezzarli e a lasciarli camminare per conto loro.

Ogni papà e mamma, ogni giorno, vivono un pezzetto della morte del proprio figlio, morte che non per questo significa annullamento, bensì distacco per dare vita. Allora torniamo alla nostra domanda: esiste una strada che ci porta oltre la nascita e la morte di questi figli, che ci dà ancora la speranza che siano vivi?

Le nostre parole servono a ben poco. La Parola di Dio, invece, è capace di rigenerare in noi la forza. Riapriamo la Bibbia.

Nel Secondo libro di Samuele 12, 21-23, si narra un episodio strano.

Il Re Davide, dopo aver fatto uccidere in battaglia Uria l’Ittita, si unì a sua moglie Betsabea rimasta ormai vedova, con la quale concepì un bimbo, che siccome era figlio dell’adulterio, si ammalò gravemente. Davide fece di tutto e tanti sacrifici, digiuni e preghiere per riaverlo. Ma non servì a nulla. Il bimbo morì.

“I suoi servi gli dissero: “Che cosa fai? Per il bambino ancora vivo hai digiunato e pianto e, ora che è morto, ti alzi e mangi!”. Egli rispose: “Quando il bambino era ancora vivo, digiunavo e piangevo, perché dicevo: “Chissà? Il Signore avrà forse pietà di me e il bambino resterà vivo”. Ma ora egli è morto: perché digiunare? Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me!”.

Davide mette da parte il pianto proprio quando il figlio muore, con grande stupore da parte di tutti, perché è certo che un giorno andrà da lui.

Un giorno, cioè, potrà nuovamente incontrarlo, non perché lui tornerà da quella strada attraverso cui è andato via, ma perché sarà lui a percorrere un giorno la medesima strada del figlio. E se ci incamminiamo per la stessa strada, prima o poi ci incontreremo.

Un oncologo portoghese racconta:

“Un giorno sono arrivato in ospedale presto e ho trovato il mio angioletto, una bambina di 11 anni affetta da cancro nello stadio terminale, solo nella stanza. Ho chiesto dove fosse la sua mamma. Ancora oggi non riesco a raccontare la risposta che mi diede senza emozionarmi profondamente.

“A volte la mia mamma esce dalla stanza per piangere di nascosto in corridoio. Quando sarò morta, penso che la mia mamma avrà nostalgia, ma io non ho paura di morire. Non sono nata per questa vita!

“Cosa rappresenta la morte per te, tesoro?”, le chiesi.

“Quando siamo piccoli, a volte andiamo a dormire nel letto dei nostri genitori e il giorno dopo ci svegliamo nel nostro letto, vero? (Mi sono ricordato delle mie figlie, che all’epoca avevano 6 e 2 anni, e con loro succedeva proprio questo)”.

È così. Un giorno dormirò e mio Padre verrà a prendermi. Mi risveglierò in casa Sua, nella mia vera vita!”

Rimasi sbalordito, non sapendo cosa dire. Ero scioccato dalla maturità con cui la sofferenza aveva accelerato la spiritualità di quella bambina.

“E la mia mamma avrà nostalgia”, aggiunse.

Emozionato, trattenendo a stento le lacrime, chiesi: “E cos’è la nostalgia per te, tesoro?”

“La nostalgia è l’amore che rimane!”

 

Proprio così, è l’amore che ci spinge a credere che NON PUO’ FINIRE COSI’, che un figlio non può morire!

 

Nel Libro del Geremia 31, 15-17

Così dice il Signore:
”Una voce si ode a Rama,
un lamento e un pianto amaro:
Rachele piange i suoi figli,
e non vuole essere consolata per i suoi figli,
perché non sono più”.
Dice il Signore:
”Trattieni il tuo pianto,
i tuoi occhi dalle lacrime,
perché c’è un compenso alle tue fatiche
- oracolo del Signore:
essi torneranno dal paese nemico.
C’è una speranza per la tua discendenza
- oracolo del Signore -:
i tuoi figli ritorneranno nella loro terra”.

È Dio stesso che asciuga il pianto di Rachele, la donna dalle tante ferite, la donna che morirà dando alla luce il suo secondogenito Beniamino, e le assicura che c’è una speranza concreta: rincontrerà i suoi figli. La potenza dell’amore del Signore, che dà senso al dolore inconsolabile e che perdona con profonda tenerezza, crea una “cosa nuova sulla terra”: la ricerca amorosa e sincera di Lui.

Questa “cosa nuova”, è luce che torna sugli occhi dei genitori donando loro lo sguardo penetrante della fede, quello che permette al cuore di vedere, oltre la storia, una storia che continua a vivere oltre il tempo.

E quando vi fermate nel silenzio della vostra vita, percepite con sicurezza che un figlio non può morire mai, ma vive, vive ancora, magari in un altro letto non lontano dal nostro.

Questa sera Gesù ci insegna che, come avviene nel parto, non esiste morte che non sia dono. Prende il pane, ”Questo è il mio corpo”, lo spezza e lo dà. Questo mistero eucaristico si è compiuto anche nel pane della vostra stessa famiglia: il corpo di vostro figlio, di vostra figlia che custodivate nel vostro grembo, è stato spezzato dalla morte, ma non è stato buttato via: voi potete ancora donarlo al Signore e agli uomini.

 

Cari Genitori, per favore, non dite mai: HO PERSO UN FIGLIO, dite piuttosto HO DONATO UN FIGLIO A GESÙ. E alla gente dite: “questo è il mio figlio donato per voi!” Il vostro grembo non è una tomba, perché ha accolto il dono della vita che Dio vi ha dato; il vostro grembo è un sepolcro vuoto nel quale intravediamo le tracce della risurrezione; Ecco il mio figlio donato per voi.

 

Cari Genitori non dite mai: NON SIAMO STATI DEGNI DI ESSERE GENITORI, pensate piuttosto che anche se la vita ha abitato in voi per un solo giorno, quel giorno di vita non è inutile e banale: rinchiude in se tutta l’energia della potenza di Dio che non si misura mai in quanti di tempo (“quanto tempo sei stato con me”), ma in quanti di amore (“quanto ti amo)”. E voi siete veri padri e vere mamme.

 

Cari Genitori non dite mai: LA NOSTRA VITA NON HA PIU’ SENSO, perché il senso della nostra vita non lo troveremo mai pienamente in questa vita, ma nella vita che Dio ci darà e in quella certezza che la vita eterna è “STARE CON LUI, insieme”, come Gesù ha promesso al buon ladrone nell’ora della croce. Quante volte voi stessi avete detto loro: non mi importa dove stai, anche se la lontananza mi fa soffrire, mi importa che li dove sei, tu stia bene. E la vita eterna è STARE-CON GESU’ PER SEMPRE.

 

Cari Genitori, vi prego, non pensate mai: DIO NON CI VUOLE BENE, perché Dio vi ama più che mai, perché Lui sa che significa piangere per una persona cara che muore. Per Lazzaro addirittura scoppiò in lacrime come un bambino. Dio vi ama, perché piange con voi, si fa vincere dal vostro dolore e dalle vostre lacrime. Questa sera si china sui vostri piedi, troppo lacerati da corse disperate, li bagna, li lava, li asciuga, li bacia

 

Nel Vangelo di Luca (7, 11-17) si narra che

“Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlzati!”. Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.

Gesù ha grande “compassione” per voi e compassione non significa pietà; significa che patisce insieme a voi, prova i vostri stessi sentimenti, vive con voi la vostra stessa passione. E vi dice “NON PIANGERE”! Quanto è tenero questo imperativo negativo: non vuol dire non devi soffrire, perché è impossibile. Vuol dire “ci sono qui io con te”, io che questo figlio te lo restituirò vivo. “Lo restituì alla madre”, sì perché la morte non ha il potere di strappare una vita, di rubare un figlio: DIO RESTITUISCE.

Gli avete donato un figlio, Dio restituirà.

Gli avete donato una vita, Dio restituirà.

Gli avete donato tutto, Dio restituirà.

 

Grazie cari Genitori, in voi si manifesta tutto l’amore e la compassione di Dio per noi. Nessuna parola umana, nessun prete, nessun medico, nessun amico caro sarà mai capace di consolare questo dolore esagerato, solo la Parola di Dio può regalarvi la certezza che questo figlio/figlia voi lo riavrete restituito.

Non perdete mai il coraggio e la forza di continuare a vivere portando negli occhi la luce dei vostri figli, perché quella luce non è semplice orgoglio per un figlio che si è sistemato; non è solo luccichio di una gioia per una figlia che si è realizzata con successo; non è il bagliore di un figlio che porta a casa risultati esaltanti: i vostri figli, la luce dei vostri occhi, ci abbagliano già dello splendore della risurrezione, la realizzazione piena della loro vita.

E questa luce voi, fin da ora, la potrete rivedere nella celebrazione della Messa, nella Comunione: lì a tavola non manca nessuno, lì non ci sono posti vuoti.

 

Vi lascio con una bellissima profezia ancora del profeta Isaia (65, 17-21)

Così dice il Signore: «Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia. Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza, poiché il più giovane morirà a cento anni e chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto».

Chissà quante volte la Madonna avrà letto e riletto questa profezia, pensando al suo dolore, a quella spada lancinante che le aveva trafitto il cuore e il grembo.

Vi affido a Lei, che come voi, ha donato un figlio al suo Signore, il suo unico figlio. Nei momenti tristi, quando la luce della gioia cede il posto all’ombra della tristezza, affidatevi a Lei, parlate con Lei, raccontatele il vostro dolore.

Lei vi racconterà di suo Figlio e vi dirà CORAGGIO NON PIANGERE, tuo figlio vive e tu lo riabbraccerai.

Polignano a Mare, 2 aprile 2015

Giovedì Santo

don Gaetano

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