OMELIA PER LA PRIMA CELEBRAZIONE EUCARISTICA DI DON ANTONIO ESPOSITO
OMELIA PER LA PRIMA CELEBRAZIONE EUCARISTICA PRESIEDUTA DA
DON ANTONIO ESPOSITO
Domenica 4 giugno 2017
LA PENTECOSTE, anno A
Gv 20,19-23
L’ordinazione sacerdotale è una vera e propria Pentecoste.
La sera scorsa, il Vescovo con il presbiterio radunato insieme al popolo di Dio ha invocato su di te, caro Antonio, la solenne effusione dello Spirito Santo, che, come fuoco devastante, ha dato alla tua vita la forma nuova di Cristo buon Pastore.
Al versetto 22 del Vangelo di oggi si legge:
22Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo.
Il verbo ἐμφυσάω (emfiusao), composto da EN (dentro) e FIUSÀO (soffiare, respirare), ci riporta alla creazione del primo Adamo di Genesi 2, in cui Dio soffia la sua RUHA, dopo aver modellato la terra morta l’ADAMA’, donandogli la vita. Tu, con l’Ordine Sacro, hai ricevuto una vita nuova, una vita che non è capace solo di vivere, ma anche di donare la vita stessa. La tua esistenza è diventata zoopoietica, perché mentre tu ti doni a Dio, la tua vita diventa un dono per tutti e produce vita in tutti.
Dinanzi a questo pauroso e violento effluvio di grazia, anche il tempo si è fermato: sia quello meteorologico, che ha dovuto cedere e piegarsi alla forza del calore del sole che ha sbaragliato ogni ipotesi di temporale, sia quello spirituale, perché l’eternità ha fatto, con tenerezza, il suo ingresso nella tua e nella nostra storia. Quando le tue giornate ti sembreranno interminabili, quando tra te e te penserai: “Ma ce la farò ad arrivare a sera?”; quando la gente con le sue richieste ti soffocherà; quando per la mole di lavoro ti mancherà l’aria; quando i numerosi colloqui con le persone che da te desiderano un po’ di ossigeno ti manderanno in seria ipossia, ricordati sempre che Dio respira in te.
Una storia che ho il privilegio di conoscere fin dalla tua infanzia, fin da quell’estate del 2003 – frequentavi la quinta elementare – quando, alla sera di una giornata del campo Samuel, mi comunicasti la decisione di entrare nel seminario diocesano di Conversano, non senza le grandi perplessità della tua cara mamma che, già da allora, come un bulldozer, e con la solita testa dura che ti ritrovi, radesti al suolo senza alcuna pietà!
Anche in quella semplice sera lo Spirito faceva irruzione nella tua esistenza, mentre tutti eravamo chiusi tra le porte della paura e della titubanza. Il testo di Giovanni riporta addirittura il verbo κλείω (KLEIO) che significa sbarrare, chiudere ermeticamente.
È proprio in quella paura che Gesù, viene e “sta in mezzo” (ESTE è il perfetto di ἵστημι (ISTEMI), da cui deriva AN-ISTEMI, il verbo che tutti gli evangelisti utilizzano per dire la risurrezione: formato dalla preposizione anà: SU, DAL BASSO VERSO L’ALTO e istemi stare verso l’alto, in piedi).
Non lo dimenticare mai, caro Antonio: la risurrezione non è nel suono gioioso delle campane. Cristo non risorge alle prime note del Gloria, allo scoccare della mezzanotte del Sabato Santo.
Cristo risorge nella paura: è in quel terrore che Lui sta dritto, in piedi.
È nella tua paura che Cristo risorge.
È quando ti rinchiudi ermeticamente tra le cataratte dell’angoscia che Gesù viene a stare, non come romanticamente si dice, “accanto a te”, ma viene a stare IN MEZZO a te, al centro della tua vita, come un perno, come un’anima salda che la tiene dritta.
È proprio quando ti tremano le gambe, che Lui sta in piedi sulle tue gambe.
Nella paura, caro Antonio, anche della notte più buia, non ti chiudere mai nell’armadio delle tue certezze personali; non ti affidare alle sicurezze passeggere di umane torce luminose che, prima o poi, perdono la carica. Sei sacerdote prima che presbitero: allarga le tue braccia e invoca lo Spirito Santo su di te, e Lui verrà da te a sollevarti. E, se per la paura non riuscirai nemmeno a pregare, Lui verrà lo stesso e sfonderà la porta del tuo cuore anche senza il tuo permesso ed elargirà la primizia della sua resurrezione: la pace. Sentirai nella tua anima una pace forte, intima, duratura, che non corrisponde alla semplice assenza di conflitti circostanti o di problemi pastorali o di malattie. Non si tratta di un facile irenismo, non è la pace della sedia a sdraio, dei tramonti sul mare, dei riposi sereni: è la consapevolezza di Cristo dentro di te. E questa pace niente e nessuno al mondo potranno mai strappartela.
20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco
Il verbo mostrare utilizzato nel testo greco è δείκνυμι (dèikniumi), corrispondente ad indicare, mostrare col dito indice. Sì: Gesù non ha paura di mostrare e addirittura indicare le sue piaghe, i segni della sua tortura, i tatuaggi della sua sofferenza. Così anche tu, caro Antonio, non hai mai voluto nascondere le tue ferite, non hai mai voluto coprirle e non ti sei mai vergognato della tua malattia.
In un’epoca in cui ognuno cerca, in tutti i modi, di celare i propri difetti, le proprie imperfezioni, i propri inestetismi; in un’epoca in cui domina la cultura dell’apparire, della cosmesi delle personalità, della trasformazione del proprio corpo, dell’estetica della forma, tu hai sempre mostrato la bruttezza scandalosa della tua malattia per condividerla con gli altri e per indicare loro che c’è una strada alternativa alla disperazione, che c’è una metodologia nuova rispetto alle obsolete analgesie che il mondo dello stordimento propone come suicidio esistenziale; che esiste una terapia ultimissima del dolore ed è la fede nella risurrezione del Cristo risorto che tu proponi, ogni giorno, non a parole, non a prediche, ma con la curva del tuo sorriso che mai si spegne sul tuo volto, nemmeno nei momenti più difficili. Il tuo sorriso resterà sempre la tua omelia più bella, quella pronunciata sugli amboni della storia del dolore, nei luoghi della malattia e del dolore, nei nosocomi del tormento.
E che cosa mostra Gesù?
Il testo italiano dice le mani e il costato.
Il testo greco dice τὰς χεῖρας καὶ τὴν πλευρὰν (KAI KEIRAS KAI TEN PLEURAN), le mani e la pleura.
Da ora in poi, ogni volta che celebrerai l’Eucaristia dovrai mostrare sempre insieme queste due realtà intimamente connesse.
Non solo quelle mani sante che stenderai per consacrare le offerte, che alzerai per benedire, che appoggerai sul capo delle persone per guarire dal peccato e dalla malattia.
Il testo stesso dell’Evangelo lo dice al versetto 23:
23A coloro a cui perdonerete i peccati (ÀFETE viene dal verbo àfiemi ἀφίημι = allontanare, mandare lontano. Qui il congiuntivo aoristo sottolinea la puntualità di tale azione, cioè l’atto che in un istante porta al perdono dei peccati),
saranno perdonati (AFÈONTAI= resteranno rimessi. Il perfetto indicativo passivo evidenzia lo stato permanente dell’atto del perdono: una volta perdonati, i peccati sono perdonati per sempre)
a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
In un istante le tue mani guariranno in maniera definitiva e non remissiva dal cancro del peccato. Mi raccomando: non negare mai a nessuno la misericordia di Dio, non privare nessuno della medicina dell’amore di Dio, nemmeno al peccatore più incallito.
Insieme alle mani, però, mostra anche la tua pleura, i tuoi rivestimenti interiori, le tue membrane interne, la tua malattia che speriamo quanto prima venga debellata.
Con le mani lo Spirito Santo scenderà sulla terra, con la tua pleura lo Spirito Santo entrerà nella terra. Con le mani evocherai lo Spirito dall’alto, con la pleura lo soffierai nei polmoni di ogni uomo. Sì perché alle mani di un prete si può resistere, ma alla sofferenza no. Si può opporre resistenza ai sacramenti, ma davanti alla sofferenza non esiste ateismo che tenga: può esistere una religiosità malata che allontana da Dio, ma anche una religione nella malattia che ci avvicina a Lui.
Quante volte in ospedale hai affiancato un letto di un non credente, di una persona lontana dalla fede e quante volte sei riuscito a trasfondere in loro una speranza, un sorriso, una forza… e ci riuscivi sempre molto bene, non solo perché eri un consacrato, ma perché condividevi la medesima loro sofferenza. E se non ce la facevi ad intessere con loro un discorso sulla interiorità spirituale, ce la facevi se cominciavi a parlare di una certa spiritualità delle interiora.
Il segreto sta in un verbo che è l’espressione più bella del ministero di Gesù: COMPASSIONE, in latino CUM-PATIOR, sentire insieme, soffrire insieme; in greco σπλαγχνίζομαι (splangkhnizomai): commuoversi nelle profondità”. Questo verbo ha una radice che richiama le interiora ta σπλαγχνa, le viscere e indica proprio il fremito interiore che un padre o una madre provano, anche a distanza, nei confronti dei propri figli. Una vibrazione interiore che va aldilà della semplice empatia, un coinvolgimento nel profondo, un amore viscerale che non si può spiegare scientificamente, ma solo provare. E uno dei vocaboli ebraici che definisce la compassione e la misericordia di Dio è proprio il termine rachamim, plurale della radice “rechem”, che significa appunto il “grembo materno”.
La misericordia è la eco viscerale dell’amore, la risonanza interiore del legame che unisce inscindibilmente i cuori, il riverbero addominale della passione smisurata di due vite che suonano una sola.
Anche se inaccettabile, uno dei doni più grandi che la malattia ti fa è l’essere dentro l’altro, che si sintetizza in una espressione molto profonda: “Ti comprendo, ti posso capire”. E lì dentro, anche l’altro può incontrare chi hai dentro, Cristo.
Scrive San Cipriano: «Che noi siamo sfiniti da una lacerazione delle nostre viscere, che un fuoco violentissimo ci consumi interiormente fino alla gola, che le nostre forze vengano continuamente scosse da vomiti o che i nostri occhi siano iniettati di sangue, che siamo contaminati dalla cancrena e costretti ad amputare uno dei nostri membri, o che una qualsiasi infermità ci privi improvvisamente dell’uso delle gambe, della nostra vista o del nostro udito: tutti questi mali sono altrettante occasioni per approfondire la fede» (Cipriano, Sulla morte 14)
“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”.
Che strano, non ti sembra?
Gesù mostra le sue piaghe, le sue ferite, il suo dolore, il suo sangue e i discepoli “ἐχάρησαν” (EKARESAN); è il perfetto del verbo KAIRO, cioè scoppiarono di gioia.
Non ti sembra strano?
Noi ci aspetteremo reazioni diverse.
Non so: il discepolo premuroso sarebbe corso a chiamare un medico.
Il discepolo ansioso avrebbe cominciato a gridare aiuto.
Il discepolo affettuoso avrebbe cominciato a dire “Che ti è successo? Chi è stato a te? Come ti sei ridotto! Che è tutto quel sangue!”
Il discepolo sensibile sarebbe magari svenuto.
Invece niente di tutto questo.
I discepoli, al vedere Gesù e le sue piaghe, scoppiano di gioia.
Caro Antonio, continua a mostrare a tutti i segni della tua crocifissione come sai fare tu e tutti gioiranno, ma non perché avrai dato loro un giusto consiglio, perché nella malattia, come di fronte alla morte, i consigli non servono a nulla. E nemmeno le parole più sante servono a qualcosa.
Tutti gioiranno, perché tu come Gesù, sarai stato capace di trasformare la ferita della pleura in una feritoia, in una finestra aperta dritta dritta sul cuore.
Quando ero in seminario lessi un libricino di Henri Nouwen, che si chiamava “Il Guaritore ferito”, in un passo del quale lui scrive:
Il Sacerdote è chiamato ad essere il guaritore ferito, colui che deve curare le ferite proprie, ma che deve essere preparato nello stesso tempo, a guarire le ferite altrui” (pag 76)
E tutti coloro che riusciranno a vedere il tuo cuore inondato dall’amore di Dio, riusciranno anche a comprendere che, nonostante tutto, vale la pena ancora continuare a vivere, perché tra due ferite i cuori comunicano senza interruzioni.
Porta nel mondo, col tuo sorriso, una trasfusione dell’amore di Dio, perché il mondo intero recuperi le energie vitali, si rialzi in piedi e riprenda la gioia perduta.
Cammina, caro Antonio, senza stancarti mai.
Cammina perché il Signore sta in mezzo a te e tu sei nel mezzo del suo cuore.
Cammina sui piedi, ma cammina anche sulle tue mani, sulla tua pleura, sulle tue viscere.
Cammina attraverso le ferite del mondo.
Perché il mondo sappia che tu sei…
MALATO DI DIO!
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