Restauri
Parrocchia “Santa Maria Assunta”
Polignano a Mare, 31 ottobre 2011
Restauri
Domani, 1 novembre 2011, ultimati i lavori di restauro, riapriremo finalmente la Cappella della Chiesa Matrice che custodisce le Reliquie del nostro Santo Patrono, San Vito Martire. Un lavoro fortemente voluto dalla passione di Mons. Vito Benedetti e completato dalla passione di tanti uomini e donne di buona volontà che hanno offerto il loro contributo con grande generosità. È bello ritrovare il piccolo salvadanaio blu di cartone per raccogliere i risparmi per il restauro, in ogni casa della nostra Città e sui banconi dei vari esercizi commerciali. È bello comprendere quanto in ognuno di essi si raccolga, non tanto il peso del metallo, tantomeno il valore numismatico delle monete, quanto la bontà di un Popolo che è capace di rinunce, seppur in un tempo di pressante crisi economica, per amore del suo Santo Protettore.
Certo riparare una chiesa fatta di mattoni è cosa da poco, rispetto al restauro della chiesa che siamo noi.
Anche San Francesco all’inizio della sua conversione aveva compreso che avrebbe dovuto fare il restauratore di pietre.
“Era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo, quando un giorno passò accanto alla chiesa di San Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti. Condotto dallo Spirito, entra a pregare, si prostra supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla grazia divina, si ritrova totalmente cambiato. Mentre egli è così profondamente commosso, all’improvviso – cosa da sempre inaudita! – l’immagine di Cristo crocifisso, dal dipinto, gli parla movendo le labbra. “Francesco, – gli dice chiamandolo per nome – va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”.[…] Poi, si dedicò con impegno al resto, lavorando con intenso zelo a riparare la chiesa… quantunque il comando del Signore si riferisse alla Chiesa acquistata da Cristo col proprio sangue” (Tommaso da Celano, Vita Seconda di San Francesco d’Assisi, FF 593-595).
Posizionare mattoni e ripulire pietre riporta l’edificio chiesa al suo splendore originario, ma come sarebbe ancora più bello ripulire il cuore della nostra comunità!
E per ripulire e riparare l’anima della comunità non si può agire esteriormente, ma solo intimamente, attraverso quell’azione di Grazia che risana attraverso l’opera dei Sacramenti, in maniera particolare quello della Confessione, o Penitenza, Riconciliazione. Un Sacramento poco vissuto, forse perché non se ne conosce il valore e la portata. O forse perché la nostra società ha smarrito anche il senso del peccato a discapito di un esponenziale crescita del senso di colpa: ci si sente sempre in colpa quando ci si ritorce su di se e si pensa di poter sopravvivere esclusivamente con le proprie forze. Il senso di colpa opprime, autogiudica, disperde energie, sottrae la gioia di vivere e ci rimanda un’immagine distorta di noi stessi, prevalentemente negativa, debole, incapace. Lo descrivono espressioni del tipo: “ma sono proprio un incapace”, “gli errori li commetto sempre e solo io”, “ma che sono nato a fare”, “da me non ti aspettare nulla di buono”, “tu non potrai mai essere felice con me”, “non sono buono a niente”, “ho sbagliato tutto nella vita”. Scrive Sovernigo, “Il senso di colpa si concretizza in una vasta gamma di sentimenti: un senso di indegnità di sé, un senso di contaminazione di sé, un senso di paura, ansia, minaccia, un senso di disagio diffuso e impreciso, un senso di disistima di sé, un senso di inferiorità e svalutazione di sé, un senso di avvilimento, sconfitta, umiliazione, un senso di depressione, un senso di risentimento contro ignoti” (G. SOVERNIGO, “Senso di colpa, peccato e confessione. Aspetti psicopedagogici”, EDB, Bologna 2000, 109).
“Ascoltando i giovani a tu per tu, scrive Frère Roger Schutz Fondatore della Comunità di Taizé, mi chiedo speso da dove venga in loro quel sentimento di sentirsi condannati, quel senso di colpevolezza che non ha nulla a che vedere con il peccato. Il peccato è rottura con Gesù Cristo, è far uso dell’altro, è renderlo vittima di se stessi. […] Alcuni giovani, scoprendo se stessi senza che nessuno stia ad ascoltarli, giungono allora a credersi dei piccoli mostri e sono condotti all’autodistruzione, al limite fino al suicidio”. (R. SCHUTZ, Vivere l’insperato, Morcelliana, Brescia 1978, 53-54)
Il senso di colpa non lascia spazio nemmeno ad una forma di redenzione umana, perché chi giudica l’io non è una persona-altra, diversa da me, ma è l’io stesso che si determina come giudice irrevocabile. Un’altra persona la si può pure convincere del contrario, ma è difficilissimo cambiare l’opinione che noi abbiamo di noi stessi: è un processo lungo, cui non sono sufficienti nemmeno i giorni di una vita intera.
“Ciò che è proprio della colpevolezza è la coscienza di una diminuzione di se stessi, di una perdita di valore, non di fronte agli altri, bensì ai propri occhi” (G. ZUANASSI, Esperienza della colpa, aspetti psicologici, in Senso di colpa e coscienza del peccato, PIEMME, Casale M. 1985, 28-29).
Se il senso di colpa induce un meccanismo autolesionista che, a lungo andare, conduce alla morte, il senso del peccato non annichilisce la persona, ma significa l’interruzione delle tre fondamentali relazioni dell’uomo con Dio, con i fratelli e le sorelle, con il mondo creato. Nasce dalla fede assoluta che senza il Signore non si può vivere e che “litigare” con Lui, separarsi da Lui, rompere con la sua amicizia, tagliare i ponti con il suo amore significa peccato. Lo descrivono espressioni del tipo: “Signore perdonami, ho sbagliato”, “Ti chiedo perdono Signore per il male che ho commesso”, “Aiutami Gesù ad amare come te”: nel peccato l’io si relaziona sempre a Dio, anche se tenta di allontanarsene e la parabola dell’errore non si ritorce su se stessa, ma prosegue sempre in un orizzonte aperto alla speranza del perdono: l’illimitata misericordia di Dio Padre. “Se il tuo cuore ti condanna, Dio è più grande del tuo cuore” (cfr. 1Gv 3, 20).
Scrive Frère Roger Schutz da Madrid il 19 marzo 1977: “Tutto il passato, persino l’istante che è appena trascorso, è già sepolto con il Cristo nell’acqua del tuo battesimo. Dio non ritorna mai sulle cose passate. Mai guardare indietro. Rinunciare a guardare indietro non significa un atteggiamento irresponsabile. Se tu hai ferito il tuo prossimo oserai abbandonarlo sul ciglio della strada? Ti rifiuterai ad una riconciliazione? Rinunciare a guardare indietro non significa dimenticare il meglio di ciò che hai vissuto, o i doni che Dio ha deposto in te. Dimenticare i danni del peccato nessuno lo può: resta un rimpianto, un dispiacere tenace, lancinante. Ma se ti sommerge questo rimpianto, se la tua immaginazione ti fa spesso rivedere quell’immagine distruttrice del passato, sappi almeno che Lui, Dio non ne tiene conto. Ad ogni essere umano, al più nascosto, al più povero fra di noi, Dio apre una fiducia senza limiti. Allora la speranza diventa un canto interiore, apportatrice di energia viva come nessun’altra”.
È chiaro allora che il peccato lo si riconosce solo alla luce della fede: per chi non crede non esiste peccato e, di conseguenza, necessità della confessione. Se io, ad esempio, non credo di essere ammalato, o non credo che esistano determinate malattie, non andrò mai dal medico, né prenderò mai medicine.
Il Sacramento della Riconciliazione, nasce dal riconoscimento che il peccato è una malattia grave, che estendendo pian piano le sue metastasi segrete nell’anima, la distrugge senza provocare dolore. E più ci si inoltra nella pratica del peccato, più è difficile tornare indietro, più progredisce lo stato di avanzamento della malattia. Lo possiamo constatare quando dai piccoli peccati veniali, si passa a quelli moralmente più pesanti. Una volta messa a tacere la coscienza del male, tutto sembra “nor-MALE”. Sfondata la porta del primo senso di colpa e del peccato che produce un primo dolore transitorio, tutto scorre liscio e si amplifica in maniera esponenziale. Una specie di “effetto collant”: dalla prima invisibile lesione, si dirama un’inesorabile smagliatura. È sempre bene tenere sotto controllo la malattia, è sempre bene rendersi conto che il tumore dell’anima è il peccato e il peccato se lasciato libero di agire, porta alla morte sicura. In una visione materialistica e immanentistica, in cui Dio non esiste, l’uomo è libero di compiere qualunque azione pur di godere la sua propria felicità nel tratto di vita che gli è consentito, anche di uccidere. Nell’esperienza di una fede veramente vissuta, il peccato lacera e ci esclude dalla felicità della vita eterna, della vita oltre.
La confessione cura oggi per poter vivere la vita del domani nel regno di Dio ed è il punto finale di un lungo processo di ritorno che si chiama appunto conversione.
Ogni persona per potersi riconciliare davvero e in profondità, deve percorrere un itinerario interiore ed esteriore in cui si deve giocare con tutta se stessa: mente, cuore, volontà e corpo.
Una delle conversioni più belle narrate dalla Sacra Scrittura è quella che ritroviamo nella parabola del “figlio prodigo” o meglio del “padre misericordioso” (Evangelo di Luca, capitolo 15, 11-32).
Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
È l’inizio del peccato, il viaggio di allontanamento dal padre, il desiderio irrazionale di divenire autonomi da tutto, persino dal mio bene. Il giovane ripone nella ricchezza materiale il soddisfacimento della sua felicità, facendola coincidere con il piacere allo stato puro: non “questa vita me la voglio godere”, bensì “in questa vita, me la voglio godere!”. Il viaggio nel paese lontano diventa l’unica maniera per evadere da un sistema che gli sembra stretto e soffocante, come se autonomia e crescita andassero di pari passo. Un luogo mitologico, lontano dalle leggi morali e sociali, lontano dagli affetti sani, lontano dalle regole e dai principi, lontano dal sacrificio e dalla costanza, dalla fedeltà e dalla giustizia, lontano dalla famiglia, dalla società e in ultima analisi, lontano da se stessi.
“Andarsene di casa è la negazione della realtà spirituale che io appartengo a Dio, in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra. […] Andarsene di casa è partire come se ancora non avessi una casa e dovessi cercare in lungo e in largo per trovarne una” (Henri. J.M. NOUWEN, L’Abbraccio benedicente, QUERINIANA, Brescia 1994, 54).
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
La conversione comincia proprio quando incombe la carestia dell’essere e si prova il bisogno estremo della relazione: il giovane va a pascolare i porci (nella cultura ebraica sono animali impuri), ma comincia a sentire la fame della sua dignità, della sua umanità. Avrebbe voluto mangiare addirittura le carrube, il cibo degli animali, ma nessuno gliene dava. Aveva raggiunto un livello infimo, sub-umano, ma anche sub-animale: questi ultimi venivano accuditi, venivano sfamati, ma nessuno si accorgeva più di lui, era evitato, allontanato da tutti, per il mondo non esisteva più. Aveva toccato il fondo del fondo. Il peccato ci fa sprofondare nel fango più buio del male commesso e ci nega, addirittura, non solo la dignità umana, ma la dignità di essere-umano. Il peccato sottrae forze, prosciuga la felicità, deturpa la bellezza, sfregia la gioia. Il percorso della conversione nasce da questo abisso: se non si tocca il fondo, non si possono puntare i piedi per riemergere; nasce dalla consapevolezza che mi sto dirigendo verso un baratro e un passo in più è letale. Il sostantivo ebraico che sta per conversione, difatti, è shub che letteralmente disegna l’immagine del piede alzato che rimane sospeso nell’aria prima di procedere verso il vuoto e comincia una rotazione su sé stesso di 180 gradi per invertire la marcia, per “convertire” la rotta.
Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Il “rientrare in se stesso”, la rotazione dell’essere è il primo passo statico verso la conversione, statico perché non si può andare verso l’altro se non ci si muove su se stessi. Una conversione non è reale, se il cambiamento è solo apparente.
“Come già nei profeti, l’appello di Gesù alla conversione e alla penitenza non riguarda anzitutto opere esteriori, «il sacco e la cenere», i digiuni e le mortificazioni, ma la conversione del cuore, la penitenza interiore. Senza di essa, le opere di penitenza rimangono sterili e menzognere; la conversione interiore spinge invece all’espressione di questo atteggiamento in segni visibili, gesti e opere di penitenza” (Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC] 1430).
Rientrare in se stessi è il procedimento greco della metanoia meta-nous, cioè dell’andare oltre il mio pensiero, oltre la mia mentalità, oltre le mie convinzioni, i concetti che mi sono costruito, le precomprensioni a cui mi sono aggrappato. Il cambiamento del “nous” è la metamorfosi del mio pensiero interiore, cioè di quel processore centrale da cui dipartono tutti i miei desideri, istinti, visioni del mondo e degli altri, comportamenti, stati d’animo, volontà.
Finalmente rientrare in se stessi è riscoprire che solo la casa che ho abbandonato è la casa dove veramente mi sento me stesso. Mi è capitato spesso di ascoltare l’esperienza di molte famiglie che per tante ragioni si sono divise e che poi sono tornate a vivere insieme, e tutte hanno un comune denominatore: una sola è la casa della felicità, quella che Dio ha voluto per me, la casa della mia vera famiglia. “Solo quella è casa mia, la casa della mia felicità non dei miei sogni”; “il tradimento non mi ha allontanato da mia moglie e dai miei figli, ma da me stresso”; “sono andata via da mio marito perché non mi piaceva più stare insieme a lui, ma solo ora ho scoperto che senza di lui la mia vita è solo una finzione, non è vera”; “quando mi ero allontanato dai miei affetti, neanche i miei figli mi riconoscevano più, avevo perso tutto”; “ho capito che il piacere è sempre a portata di mano, ogni giorno. La felicità è una e una sola, anche se comporta sangue e sacrificio”.
Il cammino della felicità inizia dalla nostalgia della strada di casa.
“La conversione ci porta verso ciò che potrebbe essere espresso con una parola di Gesù dal Vangelo secondo Luca (6, 27-29): Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica” (C.M. MARTINI, “Qualcosa in cui credere”, PIEMME, Milano 2010, 74).
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Che bello questo Padre! Non ha mai impedito nulla al proprio figlio, non lo ha costretto a rimanere a casa, mai gli ha detto:”se te ne vai ti spezzo le gambe!” oppure “Se esci da quella porta, questa non è più casa tua!”. Anzi è stata proprio quella porta socchiusa, quello spiraglio di speranza ad innescare nel giovane il desiderio del ritorno. “Papà è qui che ti aspetta e quella porta è sempre aperta. Io sono tuo padre e non posso non amarti”: questa è la certezza di un affetto che non si spegne mai, malgrado il peccato, l’allontanamento, la certezza di una relazione che sussiste grazie all’amore e non si rompe a causa del male. Chi è più forte il male o l’amore? Chi ama veramente sa che l’unico vero male è non amare. In fondo, in fondo, quando perde tutto, il giovane si rende conto che quell’amore nemmeno il fango più nero della sua miseria può mai ingoiarlo e comincia a cercarlo. Nel suo romanzo “Le affinità elettive”, Goethe scrive un pensiero meraviglioso: “un cuore che cerca sente bene che qualcosa gli manca; ma un cuore che ha perduto, sa di che cosa è stato privato” (W. GOETHE, Le affinità elettive, EINAUDI, Torino 1996, 144).
Quel cuore cerca qualcosa che gli manca, di cui si sente privato. Cerca perché non è ancora tutto, cerca perché il peccato lo ha derubato.
Il padre è rimasto incollato alla finestra aperta sul cuore del figlio, fermo, in “stand by” nel significato non tanto del “rimanere in attesa”, ma quello più bello di “stare vicino”: il figlio è partito, ma il padre non si è mai allontanato da lui! È rimasto fermo, stabile, incastrato nella sua misericordia, inchiodato nel suo amore. La croce è il simbolo supremo di un Dio che resta conficcato nel suo desiderio dell’uomo e che non si sposta di lì, nemmeno quando l’uomo lo trafigge, gli sputa in faccia, lo prende a schiaffi, lo schernisce, lo deride. Il nostro è un Dio che “si sta”, che non si muove, che resta sempre: è l’Onnipotente, Immortale, ma è anche l’Immobile. Sulla sua carità nessuno lo converte, nemmeno il peccatore più nero. È il Dio monotono che non si stanca di riallacciare e ricondurre, riproporre e ridare, ricucire e risanare, riannodare e ritentare, in un’eterna, monotona reiterazione d’amore. È un Dio che si fissa e ti dice sempre, ossessivamente: TI AMO.
È incredibile constatare come, nella nostra vita spirituale, malgrado il nostro peccato, Dio non si vendichi mai, anzi al contrario, reagisca sempre con maggiori attenzioni nei nostri confronti. Noi ci separiamo da Lui, ma Lui non ci sottrae i suoi doni, i suoi carismi, non reclama i suoi benefici, tanto che è facile pensare: ”Come fai Signore a fidarti ancora di me?”. È questo pensiero assurdo, questa attesa ferma e incredibile, questo “Io sto sempre qua e non mi stacco da te”, più che un’azione repressiva e aggressiva, che innesca la dinamica del ritorno al Padre. Non c’è cosa più violenta dell’amore!
La conversione, allora, è un movimento tra due staticità: la rotazione statica su noi stessi che ci riporta all’interno della nostra coscienza e l’amore statico di Dio, che non si muove mai, nemmeno quando noi ci allontaniamo da Lui.
“lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”: in questo ritmo frenetico di azioni in successione, il figlio viene travolto in questo vortice inaspettato di amore.
Lo vide: lo riconobbe, i suoi occhi si riempirono di lui e ripresero a vivere, più che a vedere.
Ne ebbe “con-passione”: provò, cioè, nel suo stomaco gli stessi sentimenti del figlio, le sue stesse vibrazioni, i suoi stessi brividi emotivi. Lo sente dentro di sé, come l’empatia che si instaura tra la mamma e il figlio nel suo grembo. Nella sua pancia, nella sua mente, nel suo cuore non c’è spazio per la rabbia, il rancore, il risentimento. Il padre è pieno del figlio, è gravido della sua presenza.
Gli corse incontro: il padre si scosta dalla finestra solo quando lo vede con i suoi occhi e comincia la sua corsa sfrenata verso di lui, non ce la fa più ad aspettare. Appena il tuo piede accenna a tornare verso Dio, Lui non resiste all’idea di riabbracciarti e ti risparmia la strada e l’umiliazione.
Gli si gettò al collo: letteralmente “cadde sopra il suo collo”, perchè stremato dalla maratona dell’amore si lancia sul suo corpo e lo riaccoglie tra le sue braccia.
E lo baciò: è il gesto dell’affetto supremo, con il quale riannoda la sua vita a lui, rintreccia la sua anima a quella del figlio e gli trasmette il calore di un amore che proviene dalle sue viscere, dalle sue interiora. Agli antipodi c’è Giuda che, strumentalizzando un bacio esteriore, condanna a morte l’amore e fa del simbolo dell’unione più profonda, il meccanismo della separazione assoluta. Quanti gesti d’amore, tradiscono l’amore!
Il padre non gli fa nemmeno finire di dire la frase di pentimento che il figlio aveva imparato a memoria che lo riveste con l’abito più bello, gli rimette i sandali e in più gli ridona la ricchezza mettendogli l’anello al dito. Quello che era un non-uomo e un non-animale, diventa un principe, il re della festa.
Ecco cos’è la confessione: il desiderio spasmodico di Dio di buttarsi al collo e baciarti, è la festa dell’amore, della gioia senza limiti. Un giorno una persona ha confessato un peccato che da più di 60 anni aveva tenuto annidato nel suo spirito. Ultimata la confessione ha detto:”E’ la prima volta che mi sento veramente libero e che assaporo la felicità. Peccato averlo scoperto solo al termine della mia vita!”
“Il Sacramento della penitenza e del perdono si fonda sull’amore incondizionato di Dio nel cuore delle nostre contraddizioni. La confessione non è anzitutto un mezzo per divenire migliori. È invece la festa del perdono ad opera di Gesù. Celebra il fatto che i conflitti, le tensioni, le trasgressioni, gli urti tra persone sono esattamente il luogo della nostra speranza. È in mezzo a questa realtà che Dio è presente. Per questo la scoperta delle contraddizioni personali e comunitarie non dovrebbe essere schiacciante” (G. SOVERNIGO, cit. , 235).
Per mezzo del sacramento della Riconciliazione, l’uomo riallaccia la sua relazione con Dio, con se stesso, con gli altri uomini con il mondo creato, una relazione universale che coinvolge tutto l’uomo e tutti gli uomini del mondo.
“Bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo offesi e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato” (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 31, § V: AAS 77 (1985) 265).
Ecco perché confessarsi è così importante e non ci si può confessare da soli, perché “io ho un rapporto intimo con Dio e ci diciamo tutto a tu per tu!”, ma solo attraverso il ministero affidato da Cristo alla povertà dei Vescovi e dei sacerdoti. La sera di pasqua, il Signore Gesù si mostrò ai suoi Apostoli e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23). “Rendendo gli Apostoli partecipi del suo proprio potere di perdonare i peccati, il Signore dà loro anche l’autorità di riconciliare i peccatori con la Chiesa. Tale dimensione ecclesiale del loro ministero trova la sua più chiara espressione nella solenne parola di Cristo a Simon Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). Questo «incarico di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al collegio degli Apostoli, unito col suo capo (cf Mt 18,18; 28,16-20)” (CCC 1444).
Per quanto possa essere imbarazzante confessare il proprio peccato ad un altro uomo, non dobbiamo mai dimenticare che nell’atto sacramentale chi confessa è Cristo stesso e che il sacerdote è tenuto al segreto confessionale “usque ad effusionem sanguinis”, fino a versare l’ultima goccia di sangue. Non è uno scherzo, tantomeno un semplice segreto professionale. Il peccato, anche il più grave, viene sepolto definitivamente nel cuore della misericordia di Dio Padre.
Nella mia breve esperienza sacerdotale ho assistito alla grande potenza che scaturisce da questo sacramento che rende presente, nell’anima e nella carne dell’uomo, Cristo Sacerdote e Medico. Quante famiglie si sono rialzate solo dopo aver confessato il peccato del tradimento. Quante mamme e papà ho visto rinascere dopo aver confessato l’aborto. Una settimana dopo la confessione una donna mi disse: “Il mio grembo era una tomba fredda su cui mi chinavo ogni giorno versando le mie lacrime, oggi è diventato un altare dal quale nasce la gioia della mia preghiera”. Quante volte ho visto spirare ammalati immediatamente dopo la Confessione dei peccati e l’Unzione; sembra che non aspettino altro che la riconciliazione con Dio prima del grande viaggio. La confessione guarisce l’anima, guarisce il sorriso, ridona la libertà, debella l’ansia e la paura, raddrizza la schiena della nostra dignità e ci permette di camminare a testa alta, cancella la vergogna dal nostro volto, ridona la pace e la consolazione al cuore, risana le ferite del corpo e dell’anima.
«Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia». Il fine e l’effetto di questo sacramento sono dunque la riconciliazione con Dio. Coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa conseguono « la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito». Infatti, il sacramento della Riconciliazione con Dio opera una autentica «risurrezione spirituale», restituisce la dignità e i beni della vita dei figli di Dio, di cui il più prezioso è l’amicizia di Dio». (CCC 1468)
Se tutti conoscessero il valore e la potenza di questo grande sacramento, non lo ignorerebbero così tanto come oggi succede. Ci si nasconde sempre dietro giustificazioni di ogni genere: “Non ho tempo”, “Devo andare a disturbare il prete”, “Che male faccio”, addirittura una volta una persona mi disse: “Padre io lavoro dalla mattina alla sera e non ho tempo di commettere i peccati!”.
Non lasciamoci intrappolare dalla pigrizia spirituale: più un’azione è vicina a Dio, più il demonio tenta di screditarla ai nostri occhi. “Io non ho peccati”, “E che devo dire”, “Posso andare sempre a confessare gli stessi peccati?”
Dobbiamo avere il coraggio di “ruotare” su noi stessi e cominciare il viaggio della conversione verso Gesù Cristo, mettendo alla luce di Dio ogni nostro peccato.
«I cristiani [che] si sforzano di confessare tutti i peccati che vengono loro in mente, senza dubbio li mettono tutti davanti alla divina misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote. “Se infatti l’ammalato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il medico non può curare quello che non conosce”» (CCC 1468).
Quando ci sentiamo male il tempo per andare dal medico lo troviamo sempre e se stiamo malissimo anche con urgenza! Il tempo per la confessione non lo troviamo mai o non lo cerchiamo nemmeno.
Confessare significa “dire, proclamare, attestare” e quindi, ci insegnano i Padri della Chiesa, esiste anche una “confessione della lode” e cioè oltre al peccato possiamo confessare tutte le opere belle che il Signore compie in noi: il ringraziamento per il marito, la moglie, i figli, i genitori, per il lavoro, per una bella esperienza vissuta, per una amicizia riallacciata, per la salute ritrovata. Anche la gioia va confessata sempre!
E la frequenza della confessione dipende dall’importanza che diamo alla nostra relazione con Dio, con gli altri, con il mondo. Almeno una volta al mese sarebbe l’ideale, per vivere un’esperienza spirituale concreta e profonda, senza mai avere paura di Dio e del suo giudizio, senza mai dubitare dell’estrema misericordia di Dio.
“Cristo non è venuto sulla terra per condannare il mondo, ma affinché per mezzo suo, ogni creatura sia salvata e riconciliata. E tuttavia capita che il cuore umano sia abitato da una segreta paura di Dio. Pensare che Dio condanni l’essere umano è uno dei più grandi ostacoli della fede” (Frère Roger SCHUTZ, “Dio non può che amare”, ELLEDICI, Torino 2006, 55).
Coraggio, allora, non avere paura del Medico e abbandonati tra le braccia del suo amore che non si lascia limitare dalla malattia del tuo peccato.
Va’, ripara la TUA FAMIGLIA che, come vedi, è tutta in rovina”: restaura l’integrità della tua casa, riallaccia i rapporti con tua moglie e con tuo marito, ricuci la ferita del tradimento, riapri le braccia ai tuoi figli, ai tuo genitori, ai tuoi suoceri, ai tuoi fratelli e sorelle.
Va’, ripara IL TUO LAVORO che, come vedi, è tutto in rovina”: ripristina i rapporti con i tuoi colleghi, con il tuo datore di lavoro, impegnati più che puoi per il bene della comunità.
Va’, ripara IL TUO STUDIO che, come vedi, è tutto in rovina”: non ti arrendere, riprendi il cammino scolastico e universitario, anche dopo il dolore di un esame fallito, ricostruisci la tua carriera universitaria perché è lo studio che costruisce la tua umanità. Chi non studia crolla sotto le macerie dell’ignoranza e dell’indifferenza.
Va’, ripara la TUA VITA SPIRITUALE che, come vedi, è tutta in rovina”: da’ un’attenzione particolare alla tua anima, prenditi cura di lei soprattutto se comincia a perdere i colori della santità. Recupera con la preghiera di ogni giorno, impegnati a nutrirla con il Corpo di Cristo partecipando alla celebrazione della Messa. Ricuci gli strappi del tuo peccato con il Sacramento della Confessione.
Riparare significa impegnarsi a lavorare, continuare a costruire, non fermarsi di fronte alle difficoltà, rinnovarsi e rinnovare continuamente perché, ricorda sempre, che la vita non è mai una casa già completata, ma un cantiere sempre aperto!
Polignano a Mare, 31 ottobre 2011
Quarto anno dall’inizio del ministero nella Parrocchia
don Gaetano
Comments are Disabled