Talità kum
XIII Domenica del tempo Ordinario
Vangelo Mc 5, 21-43
Il duplice, o meglio, unico, episodio narrato dall’Evangelo di Marco questa Domenica, innesta i suoi prodromi in una certezza contenuta in forma lapidaria nella prima lettura tratta dal Libro della Sapienza (1,13)
“Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano”
Dio ha creato tutto e tutti per l’esistenza e non per la morte. Il suo progetto originale e originante è mantenere in vita ogni essere originato dalla sua volontà. Egli è il Signore della vita, non della morte. Nessuno di noi può mai esclamare: “Signore perché mi hai mandato questa malattia?”, oppure “Perché mi dai la morte?”, perché la rovina dell’uomo non è nei pensieri di Dio, ma nell’“invidia del demonio”, che è l’anticreatore, il nemico dell’esistenza, il distruttore. Dio ha progetti belli per la nostra vita, e ci regala bellezza.
Così quella donna che aveva continue perdite ha in comune con la figlia di Giairo un elemento non marginale: da 12 anni ella soffre di gravi perdite emorragiche e la bambina quando muore aveva 12 anni. Il numero simbolico di tutto l’Antico e Nuovo Testamento, è il numero che racchiude la totalità̀ delle differenze del popolo in tutte le sue componenti: le 12 tribù di Israele e i 12 Apostoli, su cui è fondata la nostra fede. Allora questo racconto non ha come soggetto principale la malattia, la morte o la guarigione, ma la nostra fede nell’unico Signore della vita e risponde a domande ben precise:
Nei momenti difficili in chi confidi?
Nella malattia a chi ti affidi?
Nell’angoscia come si comporta la tua fede?
Quella donna aveva dilapidato tutto il suo patrimonio e aveva esaurito tutte le sue scorte di speranza per curare la sua malattia, senza concludere nulla, anzi peggiorando la sua situazione. Perché le certezze umane creano maggiori incertezze.
E la sua non era una semplice malattia fisica. Nel libro del Levitico, infatti, al capitolo 15, 19-24 c’è scritto:
“Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, per sette giorni resterà nell’impurità mestruale; chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera. Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la sua impurità mestruale sarà impuro; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro. Chiunque toccherà il suo giaciglio, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino alla sera. Chi toccherà qualunque mobile sul quale lei si sarà seduta, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino alla sera. Se un oggetto si trova sul letto o su qualche cosa su cui lei si è seduta, chiunque toccherà questo oggetto sarà impuro fino alla sera. Se un uomo ha rapporto intimo con lei, l’impurità mestruale viene a contatto con lui: egli resterà impuro per sette giorni e ogni giaciglio sul quale si coricherà resterà impuro”
La sua fede però la spinge a fare un atto di follia: toccare Gesù, un toccare che le avrebbe accollato un reato gravissimo!!! Ma il desiderio della guarigione va oltre ogni legge di purità cultuale. Gesù si volta e chiede chi lo avesse toccato. Giustamente i discepoli lo deridono: Migliaia di persone si accalcano attorno a te e tu chiedi chi ti ha toccato?
Sì perché tra migliaia di mani che strattonano una risposta, tra migliaia di mani che forzano una soluzione, tra miriadi di mani che vogliono rubare una guarigione, Gesù sente addosso il calore di due mani appoggiate a Lui nella preghiera. Due mani che non richiedono, ma credono; che non vogliono, ma pregano; che non costringono, ma cercano un contatto, abbracciano, amano.
Gesù da questa donna non si sente usato, utilizzato per il suo potere, sfruttato per la sua onnipotenza; si sente amato. Solo questo. E il miracolo lo compie questo amore senza ritegno, senza freni, senza legge: “Va’ la tua fede ti ha salvata”
Anche la figlioletta del capo della sinagoga è ebrea. Ha 12 anni. È in punto di morte. Muore. È, dunque, fonte di impurità̀ secondo la Toràh:
“Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona, sarà impuro per sette giorni. Chiunque avrà toccato il cadavere di una persona che è morta e non si sarà purificato, avrà contaminato la Dimora del Signore e sarà eliminato da Israele. Siccome l’acqua di purificazione non è stata spruzzata su di lui, egli è impuro; ha ancora addosso l’impurità”.(Nm 19,11.13).
Anche questa volta a Gesù non importa nulla di nulla e “prende per mano la bambina”, la tocca, non teme la malattia, non ha paura della impurità. Cerca un aggancio. Avrebbe potuto compiere un miracolo a distanza, come altre volte aveva fatto, un tele-prodigio; ma questa volta no. La guarigione è nel contatto, nella sua mano che prende la mano esanime della bimba, e in quella relazione rinasce la vita.
In questa Domenica chiediamo al Signore la fede dell’emorroissa: quella che senza indugio, senza timore, senza rispetto le permette di buttarsi letteralmente addosso a Gesù. Anche noi, non esitiamo, soprattutto nei momenti difficili, a mettere le mani addosso a Gesù, leggendo la Scrittura, facendo la Comunione a Messa, tirando Gesù per il mantello della fede. Andiamo con forza e convinzione verso di Lui, che se la nostra fede non è convinta, decisa e violenta non risolviamo nulla. Quella donna, nella sua disperazione, ha violato la privacy di Gesù, scaraventandosi nel suo cuore.
E chiediamo al Signore la fede di Giairo: ha continuato a sperare oltre ogni speranza, contro ogni certezza, anche quella della morte. Non ha ascoltato il consiglio dei discepoli: “Non importunare più il Maestro, tanto ormai…”. La sua fede ha scavalcato quella convinzione demoniaca del “tanto ormai non c’è più nulla da fare”, perché “Nulla è impossibile a Dio” e non si abbatte nemmeno dopo la costatazione fisica della morte. Perché la speranza va oltre ogni legalismo rituale e va oltre ogni evidenza fisica. Non si scoraggia, non si dispera, non cade nello sconforto. Non ha sicurezze, ma è certo che Gesù lo tiene al sicuro.
“Talità kum”: “fanciulla io dico a te, alzati!”.
“Egerein”, è il verbo greco del mettersi in piedi, il verbo della risurrezione. Attenzione che qui Gesù non prende in braccio la bambina, ma le infonde la vita, le dona l’energia esistenziale, le ridona l’esistenza, ma sta a lei alzarsi da sola. Gesù ci dà la forza della vita, ma noi ci dobbiamo dare da fare, senza arrenderci, senza cadere sotto il peso dei nostri fallimenti, senza soccombere sotto la corazza del dolore.
Coraggio rimettiti in piedi, alzati, fatti forza. La vita ce l’hai.
E con tutta l’energia possibile, buttati addosso a Gesù. Non si scansa.
Talità kum, dico a te: vivi ancora e cammina senza fermarti.
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